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Qual è la vera posta in palio al referendum del 4 dicembre

Matteo Renzi

L’Italia ormai sta per entrare nell’ultima settimana prima della prova referendaria.

Si tratta, a ben vedere, del più importante appuntamento politico dopo le Europee del 2014, sebbene sia, ed è bene ribadirlo fin dall’inizio, una consultazione popolare finalizzata unicamente a dare l’assenso o il dissenso ad una modifica sostanziale della Costituzione. Dunque è un rendez-vous non propriamente ordinario, che si è caricato perciò di un’importanza reale e simbolica eccezionale.

Da un lato vi è Matteo Renzi e la compagine governativa che hanno voluto questa riforma e si attendono dalle urne un voto favorevole. Dall’altro il variegato fronte del No che abbraccia tutto l’arco parlamentare, dalla sinistra interna ed esterna al Pd, fino a Fratelli d’Italia e Lega, passando per Forza Italia e il M5S.

Se la campagna elettorale era stata inaugurata da un pronunciamento quasi plebiscitario del presidente del Consiglio, poco dopo ritrattato come atto d’istinto, e da una pressoché totale assenza di Silvio Berlusconi dalle piazze reali e mediatiche, combattuto tra disimpegno, diniego e simpatia per l’ex sindaco di Firenze; ecco che adesso lo scacchiere appare completamente mutato: Renzi ci tiene di continuo a specificare che non è un voto su di lui, e Berlusconi, specialmente negli ultimi giorni, è sceso in campo apertamente a favore del No con ragionamenti non privi di efficacia.

Anche la stampa estera pare aver cambiato strategia: se inizialmente tutti paventavano sinistri scenari in caso di perdita del Sì, ecco che proprio nell’ultim’ora anche l’autorevole Economist ha disegnato un quadro più equilibrato, secondo cui le vere riforme indispensabili saranno quelle strutturali ed economiche. D’altronde cosa dovrebbe cambiare per l’Italia se la Costituzione rimanesse immutata?

O la credibilità democratica e politica ci appartiene infatti dal 1946, oppure non sarà certo una trasformazione della forma di Stato a variare, in meglio o in peggio, ciò che siamo. Diverso è, viceversa, il ragionamento sulla politica economica, come si accennava, dato che questa non solo incide soggettivamente sul nostro Paese, sui nostri risparmi e sulla nostra ricchezza, ma interessa legittimamente anche gli altri.

Il fatto che Renzi ci tenga molto a marcare il fatto sacrosanto che non si metta in discussione di per sé il governo sulla base dell’esisto del 4 dicembre tradisce tuttavia un pizzico di timore e una debolezza motiva dai sondaggi che danno in testa il No ormai da settimane.

Il punto decisivo non è che Renzi si debba dimettere in caso di sconfitta, escusatio non petita, ma la battuta di arresto della sua popolarità, connessa a un dubbio nazionale sull’efficacia operativa e pratica della tanto promessa rottamazione al governo.

In questi ultimi mesi, d’altronde, è cambiato tutto il contesto interno ed esterno alla Maggioranza. Il M5S ha attraversato le sue crisi legate alla difficoltà di governare le amministrazioni locali che ha sotto la sua guida, ma, ben oltre la mancanza di serie alternative, il renzismo ha deluso e non ha più il vento in poppa.

A prescindere da come andranno le cose, e che presto vedremo, ci sono due certezze. La prima che in ogni caso si dovrà intervenire sull’Italicum, o per renderlo adeguato al nuovo sistema che non può avere un solo ramo del Parlamento elettivo senza una garanzia di pluralismo, oppure per rifare una legge elettorale pensata appunto senza il Senato, la quale andrà accompagnata con una valida e corrispettiva legge idonea per la Camera Alta.

La seconda che dopo lo spoglio delle schede ci avvieremo comunque verso la fine della Legislatura, il cui termine naturale è il 2018, benché possa avere un epilogo anticipato nel 2017. Tutto dipenderà da come voteranno gli italiani, vale a dire non soltanto dalla vittoria del Sì o del No, ma dalle percentuali reali e finali dei rispettivi consensi.

Se dovesse vincere il No con un largo margine, ad esempio, la vita di questo esecutivo e della Legislatura si avvierebbero alla conclusione, non prima di aver fatto la suddetta legge elettorale, conviene precisare. In caso contrario, ossia con una decisiva vittoria del Sì, Renzi sarebbe indotto naturalmente a prolungare la sua permanenza a Palazzo Chigi fino al 2018, non senza, si spera, aver prima emendato l’Italicum.

Il vero grande enigma è la mancanza di una seria alternativa nazionale alla leadership di Renzi. Si tratta di una convinzione molto sentita dalla gente. Il M5S, che gode di consensi crescenti, non ha un candidato di governo: Beppe Grillo, infatti, è un ideologo carismatico, ma non certo un possibile premier. Nel complesso mondo del centrodestra invece non soltanto non si scorge alcuna volontà concreta di unificazione, almeno nel breve periodo, anche perché la legge elettorale definitiva non c’è ancora, ma neanche si vede l’ascesa di una figura trainante, nuova o vecchia che sia, in grado di raggruppare e guidare l’intera coalizione. L’ipotesi primarie, unica soluzione possibile, finisce sempre nelle sabbie mobili e non è seriamente all’ordine del giorno.

In ogni modo conviene tener presente una cosa fondamentale. I problemi politici non si risolvono né eliminando il pluralismo parlamentare, né affidando alla Costituzione, modificata o mantenuta che sia, poteri trascendenti e miracolistici. In sostanza la vittoria del Sì o del No indifferentemente non risolverà i mali più rilevanti che ci tormentano: non si rafforzerà l’indipendenza dell’esecutivo, che è e resta un potere non elettivo, e non si toccherà proprio la questione delicatissima della Magistratura.

Quello che oggettivamente siamo chiamati a scegliere tra dieci giorni è se avere ancora la Costituzione che conosciamo, sperando magari di riformarla veramente in futuro con un’assemblea Costituente e con un reale accordo di tutti, oppure, in caso contrario, se preferire una riduzione della democrazia diretta, giacché il popolo non potrà più eleggere a suffragio universale un Senato ancora in vita, favorendo una semplificazione dell’ordinamento dello Stato senza però accrescere per nulla la sovranità popolare.

In Italia, insomma, o non si cambia nulla, oppure si riduce la democrazia. Questa è la vera nota negativa che aleggia dietro alla decisione che dobbiamo prendere individualmente per il Sì o per il No, nella quale occasione forse sarebbe l’ora di non preferire al solito il male minore, assecondando ossequiosamente, è obbligatorio precisare, il dovere morale e civile di andare a votare.

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