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Matteo Renzi lascia (e raddoppia nel Pd?)

politica, Matteo Renzi, 4 dicembre

Un Matteo Renzi commosso ha annunciato che oggi riunirà il Consiglio dei ministri e si dimetterà da premier nelle mani del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

Resterà dunque segretario del Pd. Ma ora, secondo quanto ha detto nella conferenza stampa dopo il voto referendario, la palla passa ai leader del No, che dovranno cercare una mediazione per una nuova legge elettorale.

Beninteso, Renzi non pare affatto pronto ad accelerare sul voto anticipato. Anzi, come ha sottolineato, gli appuntamenti istituzionali e internazionali non mancano per l’Italia (anniversario dei Trattati di Roma a marzo, G7 a maggio, in primis) così come i dossier da seguire e sbrogliare (la questione delle banche, dagli aumenti di capitali di primari istituti con le relative e possibili garanzie pubbliche, non è stata menzionata ma è una delle più rilevanti). Quindi, è pronto a passare la mano a chi avrà il mandato dal capo dello Stato di formare un nuovo governo, sottolineando che la guida di Mattarella è “autorevole e salda”.

Così, ligio alle promesse di non voler galleggiare e vivacchiare, Renzi si dimette da premier ma il tono del suo discorso appare simile per certi versi, mutatis mutandis, a quello che tenne il giorno della sconfitta alle primarie democrat che videro vincere Pierluigi Bersani.

Quindi, Renzi accetta la sconfitta, e la addossa in toto a sé, ma si prepara il terreno per una rivincita. E la rivincita non potrà non passare – secondo quanto si può arguire – dalla tolda di comanda del partito, a Largo del Nazareno. Anche se molti renziani scommettono che Renzi stia meditando di lasciare anche la guida del partito. Si vedrà.

Resta ora da comprendere se e quanto Renzi potrà far lievitare consensi al Pd, con una minoranza di sinistra sempre più baldanzosa che rivendica la vittoria del No, e quanto il raggruppamento moderato centrista centrato su Denis Verdini potrà irrorare di voti la seconda, eventuale, fase del renzismo, o – invece – ritornare al passato nel centrodestra.

Il premier ha voluto dunque portare alle estreme conseguenze quella personalizzazione del voto che, seppure forse inevitabile, è stata una – se non la principale – causa della sconfitta. L’egocentrismo è sovente un cattivo consigliere. E il falò delle vanità non è compatibile con il senso delle istituzioni.

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