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Chi spinge e chi frena per un reincarico a Matteo Renzi

politica, Matteo Renzi, 4 dicembre

Anche a costo di sembrarvi noioso e un po’ anche presuntuoso, debbo tornare a lamentarmi di come giornaloni e telegiornaloni vi raccontano, fra titoli e cronache, fatta qualche encomiabile eccezione, forse una sola, come vi dirò, questa maledetta o benedetta crisi di governo, secondo le preferenze. Nonostante tutti abbiate sentito parlare di dimissioni “irrevocabili” presentate dal presidente del Consiglio al capo dello Stato, che le ha così tirate fuori dal congelatore dove le aveva riposte 48 ore prima in attesa dell’approvazione definitiva della legge di bilancio, di irrevocabile nel gesto di Matteo Renzi non c’è stato nulla. Tanto è vero che il segretario generale del Quirinale, il navigatissimo Ugo Zampetti, già segretario generale a lungo della Camera, leggendo il comunicato appena messo a punto con Sergio Mattarella in persona, ha detto che il presidente della Repubblica si “è riservato di decidere”. Che è cosa un po’ diversa –non per fare il pignolo- dalla riserva di accoglierle, come invece avete sentito dire o avete letto su gran parte della stampa, fatta eccezione, come ho già accennato, per un “quirinalista” di vecchio e onorato mestiere. Che è Marzio Breda, del Corriere della Sera, abituato a raccogliere anche i sospiri dei presidenti della Repubblica che ha seguìto nel suo lavoro, ma non solo dei presidenti. Egli è allenatissimo a raccogliere anche i sospiri dei principali collaboratori del presidente di turno, sapendone a naso fiutare la vicinanza vera col capo dello Stato. Dirò di più: egli sa cogliere i sospiri persino delle mura del Palazzo dei Papi, dei Re e dei presidenti della Repubblica. Non mi aspetto ringraziamenti perché non sono dovuti. Raccomanderei solo ai titolisti del suo giornale di tenerne maggiore e più frequente conto.

Ebbene, Marzio Breda ha spiegato che quando le dimissioni di un presidente del Consiglio sono davvero irrevocabili, non c’è traccia di “riserva” nei comunicati e nel linguaggio, diciamo così, del Quirinale.

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Che cosa significa la “riserva”, per giunta di “decidere”, non necessariamente di accettare le dimissioni presentate da Renzi a Mattarella? Semplicemente che il presidente della Repubblica non esclude, dopo le consultazioni di rito, nessuna soluzione, ma proprio nessuna. Neppure il rinvio del governo alle Camere, dove dispone ancora di una maggioranza appena certificata al Senato con la fiducia ottenuta per la già ricordata approvazione definitiva della legge di bilancio, o il conferimento di un altro incarico a Renzi. Che un vignettista birbante si è appena divertito a rappresentare nella sua casa di Rignano sull’Arno impegnato in un tentativo simpaticamente inequivocabile di recuperare il tempo sottrattogli da più di mille giorni di governo e godersi per intero la bella e giovane Agnese: la moglie che la notte di domenica scorsa ha fatto simpaticamente capolino nella sala di Palazzo Chigi dove il marito annunciava ai giornalisti di considerare “chiusa” lì l’esperienza del suo governo, o almeno del suo primo governo. Sembrava che la signora fosse piombata lì apposta per riprendersi il marito.

Un reincarico a Renzi è esattamente quello che i suoi avversari, esterni e interni al partito, temono di più, perché essi hanno ancora di lui una paura fottuta. Temono che possa essere lui stesso a guidare il governo –questo dimissionario o un altro- destinato a gestire le elezioni anticipate, non appena rimosso il principale ostacolo che le rende oggi improponibili agli occhi e alle orecchie del presidente della Repubblica: la mancanza di una legge applicabile ad entrambe le Camere, essendo il Senato sopravvissuto al referendum ed essendo quella in vigore dal 1° luglio scorso solo per l’assemblea di Montecitorio sotto giudizio della Corte Costituzionale. Che se l’è presa molto comodamente, avendo prima rinviato a dopo il referendum l’udienza già fissata in ottobre e poi, a referendum avvenuto e a riforma costituzionale bocciata, con tutte le conseguenze politiche del caso, ha fissato la nuova udienza, non si sa neppure se definitiva, per il 24 gennaio.

Certo, della possibilità di un nuovo incarico, o re-incarico, a Renzi si sono trovate tracce, bontà loro, in alcuni titoli o sottotitoli di giornale ma in modo più scettico o cabalistico che altro: cabalistico come nel caso del solito Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, che lo ha liquidato come “improbabile”, con l’aria di voler dire a Mattarella: non vorrai mica farci il dispetto di rimetterci fra i piedi Renzi? Che in effetti, con un reincarico avrebbe ancora “carte da giocare”, come al Quirinale, secondo il racconto fatto dal già ricordato e lodato Marzio Breda, hanno ritenuto di interpretare l’atteggiamento del presidente pur dimissionario del Consiglio, per niente rassegnato ad uscire di scena, ma voglioso di “restare in campo senza paura di niente e di nessuno”.

Un brivido deve essere corso, e deve correre ancora, nella schiena di quanti, nella continua ricerca dell’avversario da inseguire e da battere, hanno da qualche tempo individuato e indicato in Renzi la causa di tutti i terribili mali di questo Paese, rimuovendo il quale tutto diventerebbe più facile e tranquillo: in Italia ma anche fuori. E’ uno spettacolo già visto in questa cosiddetta seconda Repubblica con Silvio Berlusconi, e nella precedente con Bettino Craxi. Ma ai suoi tempi, prima che ne scoprissero da morto meriti e coraggio, anche con Alcide De Gasperi, che nel 1948 il pur acculturatissimo Palmiro Togliatti non vedeva l’ora –come gridò a Roma in una Piazza San Giovanni piena come un uovo- di cacciare via dal Viminale, sede allora della Presidenza del Consiglio, “a calci nel culo”. E parlava di calci con scarpe chiodate, mica da ginnastica.

Dopo De Gasperi venne il turno della preda Amintore Fanfani, il “Rieccolo” di conio montanelliano, cui non a caso ogni tanto sembra assomigliare anche Renzi, fatte le debite differenze di età e di statura quanto meno fisica, direbbe forse il “giovanotto” di Rignano, come dicono e scrivono i suoi antipatizzanti.

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Per chiudere, consentitemi di esprimere un rammarico, all’età ormai che ho. Non farò probabilmente in tempo a vedere un presidente della Repubblica così coraggioso, o imprudente, come preferite, comunque così innovativo, da rinunciare alla consuetudine pur consolidata delle consultazioni per la soluzione della crisi di governo. Consultazioni che fanno immergere la stessa crisi nelle acque profonde della riservatezza, come un sommergibile. Acque che consentono ai consultati di dire al presidente una cosa e ai giornalisti, nelle dichiarazioni all’uscita dal suo ufficio, un’altra, senza che il capo dello Stato possa o voglia smentirli perché così violerebbe il segreto che necessariamente comporta la consuetudine –ripeto, solo consuetudine, senza alcuna norma costituzionale che la prescriva- di quella sfilata al Quirinale di segretari di partito e capigruppo. A raccogliere le cui idee potrebbero bastare ed avanzare le deliberazioni dei vari partiti e magari anche un bel dibattito parlamentare in diretta televisiva sulle dimissioni di un governo per ciò stesso rinviato alle Camere, perché alla luce del sole, o delle lampade elettriche, tutti si assumano la responsabilità delle loro idee e proposte.

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