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Come si muovono Matteo Renzi, Dario Franceschini e Andrea Orlando

Sulla prima pagina del Corriere della Sera abbiamo ritrovato, una accanto all’altra, sistemate con una scelta felicissima, anche se dovesse essere stata casuale, le immagini delle due Italie opposte di questi giorni.

Una è l’Italia del ponte dell’Immacolata, su cui sono saliti in tanti, ben decisi e contenti di godersi le città d’arte e la neve tornata sulle piste in questo assaggio di Natale. Si sono mossi da casa – hanno detto quelli che usano maneggiare i dati, poco importa se bene o male – con quasi il 13 per cento in più rispetto all’anno scorso. E non ditelo, per favore, a Matteo Renzi, in vacanza pure lui, sia pure a casa sua, perché rischierebbe di perdere la testa, parlando del benessere ritrovato dal Paese sotto la sua guida. E di perderla ancora più di quanto non gliel’abbia già ammaccata la caduta sul referendum che domenica scorsa gli ha bocciato la riforma costituzionale e lo ha indotto a dimettersi da presidente del Consiglio.

L’altra Italia rappresentata dal Corriere della Sera non con fotografie ma con titoli e richiami di articoli all’interno del giornale è quella politica: quella non si sa se più annoiata o infastidita dalla crisi di governo, provocata appunto dalle reazioni di Renzi alla bocciatura referendaria e in corso di esplorazione al Quirinale col rito delle consultazioni. Che, per quanto superato e forse anche controproducente, come vedremo, continua ad avere il suo fascino, almeno televisivo, con quei due corazzieri ben piantati accanto alle porte lucidissime dello studio del presidente della Repubblica, davanti alle quali entro sabato, al netto degli incontri singoli già avuti con i due presidenti delle Camere e col predecessore, saranno sfilati i rappresentanti di ben 24 sigle di partiti e movimenti che hanno una qualche presenza in Parlamento. Qualcuno, in verità, di sigle ne ha contate 23, anziché 24, a dimostrazione di quanto sia confusa la situazione e di come si possa anche sbagliare a leggere la lista che la fotografa.

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Dio solo sa come potrà fare il povero Sergio Mattarella, per quanto pratico già di suo della politica e assistito da validi collaboratori, a cominciare dal buon Ugo Zampetti, portatosi appresso dalla Camera come Segretario Generale del Quirinale, a ricordarsi bene le cose sentite da così tante persone e a raccapezzarsi fra tante proposte, richieste, minacce, allusioni, recriminazioni, sfide di gruppi, gruppetti, partitini e partiti. Alcuni dei quali, pur se eredi di formazioni storiche abituate ad altri stili, hanno anche preso il vezzo dei partiti cosiddetti personali, dei quali non vi faccio neppure i nomi perché sono abbastanza noti. Partiti che non sentono neppure il bisogno di salvare la faccia riunendo le loro direzioni prima di salire sul colle più alto di Roma per dimostrare al capo dello Stato di aver ben ponderato le cose da dirgli e le soluzioni della crisi da prospettargli, cui rendersi disponibili o no.

Potrò sbagliare, per carità, ma ho motivo di ritenere che il primo a rimanere esterrefatto è stato proprio Mattarella vedendo in diretta televisiva nel suo studio, o salotto, lo spettacolo della direzione del Pd che mercoledì scorso, dopo avere aspettato per più di un’ora l’arrivo del segretario ha potuto solo applaudirne l’arrivo e una relazioncina frettolosa sui pur non pochi né irrilevanti fatti accaduti nei giorni precedenti. Poi i presenti hanno dovuto rinunciare a discuterne, e tanto meno ad approvare uno straccio di documento, perché si era fatto ormai troppo tardi e lo stesso segretario aveva un altro appuntamento da rispettare: quello al Quirinale per dimettersi da presidente del Consiglio.

Con i partiti ridotti a questo, il sommergibile su cui la crisi di governo s’imbarca nel momento in cui cominciano le consultazioni s’inabissa ancora di più. Naviga cioè in acque ancora più profonde del solito, dove non so, per esempio, se e come possano giungere alla esatta percezione del comandante gli echi delle manovre interne ai partiti, non meno rilevanti di quelle esterne, per valutare la situazione e prendere le decisioni più opportune.

Nel caso specifico del Pd, per non parlare dei casini interni – scusate il termine – persino al movimento di Grillo e a Forza Italia, che pure hanno leader o proprietari in grado di dire la prima e ultima parola, mi chiedo se a Mattarella potranno bastare i rapporti personali e diretti che, a detta di tutti, egli ha col ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, di cui è comune la provenienza dalla Democrazia Cristiana, per poter conoscere e valutare bene ciò che i giornali gli attribuiscono sulla volontà o disponibilità a contrastare i progetti elettorali di Renzi, a tempi brevi o medi, sino a poterne prendere il posto a Palazzo Chigi. E ciò con l’aiuto del guardasigilli uscente Andrea Orlando, cui lo stesso Franceschini ricambierebbe il piacere spingendolo alla successione a Renzi come segretario del partito, anche se il congresso non è certo imminente e il presidente dimissionario del Consiglio non mi sembra ancora tanto suonato da lasciarsi prendere così alla sprovvista.

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A Franceschini qualcuno ha già affibbiato il soprannome di Tarzan, guadagnatosi nella Dc da Enzo Scotti per la facilità con la quale sapeva saltare da una corrente all’altra, guadagnando sempre qualche nuova postazione politica dal cambiamento. A dare a Scotti quel soprannome fu, in particolare, l’indimenticabile e caro Carlo Donat-Cattin, fulminante nella capacità di completare l’anagrafe di amici e avversari. Era già stato lui, per esempio, a definire “cavalli di razza” della scuderia scudocrociata Amintore Fanfani e Aldo Moro, che avevano finito per crederci e compiacersene pure loro. Tutti gli altri dovevano considerarsi ronzini.

Ma dubito che sia corretto il soprannome di Tarzan per Franceschini, novello Scotti del Pd secondo questa rappresentazione. Scotti era un solitario, o quasi. Si spostava da solo da un albero all’altro della foresta democristiana. Franceschini invece risulta essere titolare di un gruppo ben consistente di parlamentari, tanto alla Camera quanto nel redivivo Senato, grazie alle candidature strappate all’allora segretario del partito Pier Luigi Bersani alla vigilia delle elezioni del 2013: frutto di un altro suo cambiamento di collocazione all’interno del partito.

Per l’agilità, se non la vogliamo chiamare disinvoltura,  con la quale sa muoversi e per la consistenza della corrente su cui sembra poter contare, più che Tarzan, il ministro uscente dei Beni Culturali mi sembra l’erede dei numerosi e potenti “dorotei” dello scudocrociato. E ciò senza offesa per i dorotei o per lui, come preferite.

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