Tutto il mondo aspetta il giuramento e il discorso inaugurale della presidenza Trump, intanto però The Donald ha già scosso alcuni pilastri del paradigma americano.
In politica ha strapazzato e rimescolato i due campi fondamentali che si sono sempre contesi il potere. I repubblicani sulla carta sono usciti vincitori, in realtà è prevalsa una coalizione pluto-populista che copre con discorsi finora demagogici un’amministrazione la quale sembra costruita dal complesso militar-industriale denunciato da Eisenhower: petrolieri, generali in riposo, combattenti frustrati soprannominati Mad Dog, uomini della Goldman Sachs (una delle consorterie finanziarie demonizzate in campagna elettorale). Non sarà facile combinare i Trump boys con i pezzi grossi repubblicani del Congresso alla Paul Ryan. I democratici si leccano le ferite e non hanno capito ancora come reagire, molto dipende da chi assumerà la leadership e da come verrà gestita l’eredità di Obama; ma intanto debbono tener conto che una parte della loro base, quella dei lavoratori manuali del Midwest è passata mani e piedi con il magnate newyorchese votando repubblicano come facevano i loro avi al tempo di Lincoln quando il Great Old Party era l’espressione dell’America industriale contro quella patrizia, agricola e meridionale rappresentata dai democratici.
In economia, il paradosso è che la disoccupazione non è mai stata così bassa, quasi da pieno impiego; bisogna risalire agli anni ’60, alla Great Society di Lyndon Johnson per trovare un livello inferiore. Ma è inutile cercare riconoscenza, la vittoria di Trump non è frutto di considerazioni razionali o del tradizionale pragmatismo ormai relegato in soffitta. La promessa di tagliare le imposte più ai ricchi che ai poveri, come è scritto nel programma elettorale, ha eccitato la borsa ed evocato Ronald Reagan, ma sta già prevalendo un atteggiamento più cauto e preoccupato: un aumento del deficit e del debito rischia di preparare la prossima crisi finanziaria. E il dollaro, schizzato in alto a novembre, si sta ridimensionando.
L’aspetto più minaccioso, si dice, è il protezionismo. Lo ha denunciato anche Xi Jinping ospite d’onore nel circo globalista di Davos. Ma forse bisognerebbe chiamarlo in modo diverso, perché quello che Trump agita è piuttosto un nazionalismo negativo, fatto di esclusione e xenofobia, che l’Europa conosce bene ed era rimasto finora lontano dagli Stati Uniti, anzi era stato l’esatto contrario del sogno americano. Nessuno finora è mai arrivato a minacciare di mettere ostacoli persino ai viaggi degli europei. Vedremo se queste spacconate da bullo cresciuto con il cucchiaio d’argento in bocca, quelle arie da superbone, bambino viziato e ignorante (come ha detto Xi Jinping) cambieranno una volta insediato davvero alla Casa Bianca. Da quel che si è visto c’è da dubitarne.
Sputare sulla globalizzazione da parte di chi ne ha goduto più di chiunque altro, ha qualcosa di paradossale. Ammantarlo con analisi da no-global evocando la forbice tra ricchi e poveri, è assurdo da parte di un plutocrate che rifiuta di lasciare “la roba” una volta entrato alla Casa Bianca (che fine ha fatto il conflitto d’interessi alfa e omega della liberal-democrazia americana?). Tutto incomprensibile a meno di non evocare un revanscismo che mette in discussione i due puntelli della cultura e della ideologia americana: il binomio mercato e libertà, democrazia liberale e laissez-faire. Ad esso viene contrapposto in modo netto, anche se contraddittorio, un primato nazionale (America first) basato sulla forza e sull’isolamento che evoca foschi ricordi.
La conseguenza più immediata sarà nelle relazioni internazionali. Niente più missione liberale, niente più esportazione della democrazia, ma un asse tra potenze, combinazione bizzarra di cinismo kissingeriano e presidenzialismo imperiale. Non sappiamo se le accuse di essere influenzato se non addirittura manovrato dai russi siano fondate, se lo fossero ci sarebbe materiale abbondante per l’impeachment. Certo, Trump rovescia completamente l’asse che aveva guidato gli Stati Uniti dagli anni ’70 in poi a quando cioè si è usata la Cina per contenere la Russia prima con Mao e poi favorendo le grandi riforme di Deng Xiaoping. Oggi il principale avversario si trova proprio a Pechino.
Il neo presidente americano dice che il nuovo ordine mondiale sarà basato su tre grandi potenze, due delle quali, Stati Uniti e Russia, si mettono d’accordo ai danni di una terza cresciuta troppo e troppo in fretta, togliendo spazio agli altri. L’Unione europea non conta nulla, meglio ancora se viene divisa e ridimendionata. La Germania non è più l’alleato fondamentale in Europa come dagli anni Cinquanta in poi. Quanto al Medio Oriente, la confusione regna sovrana. Trump vuol riportare la Siria sotto Assad con l’aiuto di Putin, ma vuole anche ridimensionare l’Iran alleato strategico sia di Assad sia della Russia. Forse non si è espresso bene o forse non ha ascoltato i briefing dei suoi collaboratori. Vediamo come andrà avanti questa pantomima che apre le porte alla espansione russa anche nel Mediterraneo.
Le conseguenze del trumpismo sulla politica europea potrebbero diventare disastrose se nel presidente o nei gruppi di potere a lui vicini prevalesse la tentazione destabilizzatrice, favorendo l’ascesa di forze populiste che abbracciano, più o meno strumentalmente, il nuovo paradigma ideologico. In molti sono pronti, da Marine Le Pen a Beppe Grillo che ha goduto di benevolenze americane più o meno trasversali. Vedremo se si tratta solo di auto-candidature oppure se sta prendendo corpo quella internazionale anti-liberale la quale, appoggiandosi su Putin come ha fatto finora, ha scarsa legittimità, ma con la sponda di zio Sam potrebbe davvero giocare un ruolo nefasto in tutta Europa, dall’est all’ovest.