Oreste Mori è un pensionato di La Spezia. Sconosciuto al grande pubblico, è una star del M5s. È infatti sua la proposta di legge più cliccata dagli iscritti sulla “piattaforma Rousseau”, che introduce il vincolo di mandato per deputati e senatori. Con la benedizione di Beppe Grillo, per il quale “l’articolo 67 della Costituzione consente la libertà più assoluta ai parlamentari che possono fare, usando un eufemismo, il cazzo che gli pare”. Del resto, non esiste qualche forma di mandato imperativo anche in Portogallo, India, Bangladesh, Panama e Sudafrica? In attesa che l’Italia segua questi luminosi esempi, provvede un’azienda privata, la Casaleggio Associati, a garantire per via privatistica la fedeltà dei neoeletti pentastellati ai deliberati della Rete. Se sgarrano, lo sappiamo, scattano multe salate ed espulsioni a raffica.
Una “truffa costituzionale”, l’ha definita Claudio Cerasa sul Foglio. Certamente un pasticcio politico, che esclude ogni mediazione tra cittadini e chi li rappresenta: i primi sono i “datori di lavoro” del secondo; il secondo è solo un “portavoce” dei primi. Un modello in cui la “fine della politica” prelude a un radioso futuro comunitario, nel quale tutti i partiti sono destinati a sparire. Ma, poiché questo futuro non è dietro l’angolo, occorre passare per una fase di transizione che esige, come nella vulgata marxista-leninista della “dittatura del proletariato”, ferrea disciplina interna e, appunto, mandato imperativo nelle istituzioni.
Ben differente è stata l’avversione al libero mandato del più grande giurista del Novecento, Hans Kelsen (v. Gaetano Azzariti, “Cittadini, partiti e gruppi parlamentari: esiste ancora il divieto di mandato imperativo?”, in “Partiti politici e società civile a sessant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione”, Jovene editore, 2009). Secondo il teorico della dottrina pura del diritto, “la moderna democrazia si fonda interamente sui partiti politici, organi della volontà dello Stato e intermediari fra questo e gli individui, con la funzione di selezionare la classe dirigente e rappresentare i bisogni della società” (“Essenza e valore della democrazia”, 1920-1921). Il ruolo del parlamentare viene così declassato da rappresentante della nazione a funzionario di partito. Il Parlamento kelseniano, in altre parole, è un organo tecnico di composizione della volontà dei partiti politici.
Questa visione spinge il giurista praghese ad avanzare un’ipotesi eversiva: “Ci si potrebbe accostare all’idea di non costringere i partiti a mandare in Parlamento un certo numero, proporzionale alla loro forza di deputati individualmente determinati, che – sempre gli stessi – partecipino alla decisione di ogni più disparata questione, ma di lasciare ad essi la possibilità di delegare, a seconda delle esigenze connesse con la discussione e la deliberazione delle varie leggi, degli esperti scelti nel proprio seno, i quali partecipino di volta in volta alla decisione col numero di voti spettanti al partito secondo la proporzionale” (“Il problema del parlamentarismo”, 1925).
Questa ipotesi ha un inevitabile corollario: poiché la funzione di un deputato è subordinata al suo rapporto fiduciario col partito, ne discende che egli deve decadere quando cessa di appartenere alla lista nella quale si è presentato. Si può dire, in conclusione, che Kelsen aveva visto giusto quando ravvisava nell’allargamento del suffragio e nei partiti di massa le cause principali della trasformazione del sistema parlamentare. Non può dirsi altrettanto, però, quando sacrifica il libero mandato sull’altare della ineluttabile incorporazione dei partiti nella vita statale.
Infatti, può il mediatore (il partito) sostituire il mediato (il rappresentante e, insieme, il rappresentato)? Se la risposta è sì, allora valgono le pagine di Carl Schmitt sul principio d’identità come base di legittimazione dei regimi totalitari, e l’inquietante conclusione cui perviene: “In particolare, una dittatura è possibile solo su un fondamento democratico” (“Dottrina della Costituzione”, 1928). Se invece la risposta è no, perché significherebbe la resa alle forme più estreme di populismo, ogni stravolgimento dell’articolo 67 (“Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”) va respinto senza reticenze. Del resto, benché mutuato dall’articolo 41 dello Statuto Albertino (1848), non per questo i suoi estensori erano ignari che la libertà del parlamentare doveva fare i conti con una società solcata da divisioni sociali e fratture territoriali profonde, e che i partiti di massa si erano ormai affermati come i principali collettori del consenso popolare.
Nel 1946 (quando fu licenziato dalla seconda Sottocommissione dell’Assemblea Costituente), inoltre, era del tutto chiaro che la disciplina di partito poteva condizionare la condotta del singolo parlamentare, ma non doveva mettere in discussione la sua autonomia. Lo affermerà con chiarezza nel 1964 una sentenza della Consulta (relativa alla controversa nazionalizzazione dell’energia elettrica), laddove recita: “Il divieto di mandato imperativo comporta che il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito”.
Oggi questo principio è sotto scacco. Lo contesta apertamente una cultura politica dominata dal risentimento e dalla sfiducia: i cittadini devono essere i giudici inflessibili del potere. La metafora dell’apriscatole di Grillo risponde a questa logica: siamo in Parlamento per smascherare i malfattori e non per governare, men che meno insieme agli “altri”. Bisogna però dire le cose come stanno: le pulsioni di tipo plebiscitario del M5s godono di larga simpatia anche in certi ambienti intellettuali e accademici vicini alla sinistra interna ed esterna al Pd. A ben vedere, quelle pulsioni sono il barometro di un clima sempre più ostile alla “casta”, in cui vengono partorite le ipotesi più stravaganti: si pensi, ad esempio, alla riscoperta della virtù del sorteggio come metodo di selezione della classe politica. In questo clima si è consumato il fallimento della riforma costituzionale del governo Renzi e il ripudio del maggioritario. Non ci resta che sperare in congiunzioni astrali più benigne per il Belpaese.