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Cosa vuole da noi l’America di Donald Trump

Trump

I primi quindici giorni di Trump alla Casa Bianca hanno gettato il mondo nella più profonda prosternazione. La ruvidezza del tycoon verso alleati e avversari ed i controversi editti presidenziali hanno suscitato la preoccupazione che la superpotenza a stelle strisce sia avviata verso un nuovo corso disastroso. Il temperamento del nuovo commander in chief, le sue dichiarazioni fuori dalle righe e i suoi tweet al vetriolo sancirebbero la fine del tradizionale approccio diplomatico degli Stati Uniti, pronti a ripudiare settant’anni di politica estera all’insegna del multilateralismo.

Eppure, in queste due settimane dall’America sono giunti anche segnali di tutt’altra natura. I più stretti collaboratori di Trump si sono prodigati in rassicurazioni e parole di elogio verso gli alleati storici. Il segretario alla Difesa James Mattis ha appena concluso la sua prima visita all’estero in Corea del Sud e Giappone, dove ha confermato l’impegno americano nella difesa dei due alleati dalle intemperanze nucleari della Corea del Nord, contraddicendo ciò che Trump aveva affermato durante la campagna presidenziale. Lo stesso Mattis, nell’audizione di conferma al Senato, ha manifestato l’intenzione di proseguire nel solco dei rapporti di collaborazione in seno alla Nato, oggetto di caustiche esternazioni da parte di Trump. In una telefonata con il nostro ministro della Difesa Roberta Pinotti, Mattis ha anche lodato l’impegno dell’Italia in tre fronti strategici per gli Usa: Iraq, Afghanistan e Libia. Il nuovo segretario di Stato Rex Tillerson ha fatto altrettanto, sottolineando di attendersi dal nostro Paese un ruolo di primo piano nella risoluzione del caos libico. Sabato, infine, è arrivata anche la telefonata di Trump al nostro primo ministro Paolo Gentiloni: mezz’ora di colloquio cordiale in cui i due leader – come si legge nella nota di Palazzo Chigi – «hanno riaffermato l’impegno senza tregua nella lotta al terrorismo e al radicalismo e gli sforzi da rafforzare per la soluzione della crisi ucraina, per la pace in Medio Oriente, in Siria e, in particolare, nel Nord Africa».

I timori nutriti dai più verso un’America sprezzante sembrano insomma mitigati dalle mosse degli altri componenti dell’amministrazione Trump, dove gli umori dei falchi sono bilanciati dall’equilibrio di figure come Mattis, Tillerson e il vicepresidente Pence. L’era Trump può insomma riservare delle sorprese a chi in questi giorni sta denunciando l’arroganza del nuovo presidente e rimpiangendo la cautela di Obama. Lungi dall’essere inchiodata alla parola d’ordine del capo, America First, la nuova amministrazione Usa sembra pronta a puntare sulle alleanze storiche per affrontare i numerosi problemi che attanagliano il pianeta. L’Italia deve dunque approfittare di questi gesti di apertura, rivendicando per sé un ruolo non secondario nella gestione delle emergenze più assillanti per noi, come appunto la questione libica. L’America sembra pronta a garantirci spazi di manovra per tentare un nuovo approccio nella nostra ex quarta sponda, dove attualmente siamo paralizzati dall’appoggio al fallimentare processo di pacificazione cesellato dall’Onu. Tra la litigiosità delle varie fazioni, la questione dei migranti e le infiltrazioni terroristiche, la Libia rappresenta per noi un banco di prova. E gli Stati Uniti sono pronti ad assecondare la nostra volontà di essere protagonisti. Tutto sta a vedere se sapremo approfittare di questa disponibilità compiendo le scelte giuste là dove non possiamo permetterci di sbagliare.



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