Dopo l’outing del Cancelliere Angela Merkel sulla possibilità, ove non desiderablità, di un’Europa a due o più velocità, stanno riacquistando importanza studi e ricerche che lo avevano prospettato alcuni anni fa. E ne stanno uscendo di nuovi.
Ad esempio, giovedì 16 febbraio alla biblioteca del Senato, un panel di alto livello (Giuliano Amato, Carlo Calenda, Sabino Cassese, Andrea Manzella), coordinato da Antonio Polito, presenterà il volume di Antonio Armellini e di Gerardo Mombelli “Né Centauro Né Chimera. Modesta proposta per un’Europa plurale” uno dei primi saggi sull’argomento che esce dopo le dichiarazioni della signora Merkel. Non ha la pretesa di essere un lavoro scientifico, come i numerosi che anno affollato scaffali di biblioteche universitarie di questi ultimi anni o le raccolte di paper accademici, quali quella del Social Science Research Network. È un lavoro professionale di un ambasciatore e di un alto dirigente della Commissione europea. Non sta certo a noi anticipare il contenuto della proposta per l’Europa plurale di Armellini e Mombelli.
È utile però ricordare che nella sterminata letteratura in materia, un utile e conciso lavoro è stato pubblicato nel settembre 2015 da tre giovani studiosi del Centro Marco Biagi dell’Università di Modena e Reggio Emilia: Paola Berolini, Francesco Pagliacci e Antonio Pisciotta. Il lavoro, ora che l’argomento è diventato attuale, è stato ricordato unicamente dal Centro Studi Impresa/Lavoro. Merita invece di essere letto e meditato. Già allora i tre giovani studiosi concludevano che il crescere delle divergenze tra le varie aree dell’Unione europea e soprattutto dell’unione monetaria, rendevano necessario progettare un’Europa a diverse velocità.
Come farlo? Non sta a noi anticipare analisi e conclusioni di Armellini e di Monbelli, non è questa la sede per riassumere quelle di Paola Berolini, Francesco Pagliacci e Antonio Pisciotta. Possiamo, però, tracciare alcune idee. Nell’ambito dell’Ue, sta operando un gruppo di lavoro sulla revisione del Fiscal compact. Secondo le voci che corrono nei principali ministeri delle capitali Ue di maggior peso, e ovviamente, a Bruxelles, l’idea di base sarebbe quella di rendere il Fiscal compact più flessibile, ma anche d’incorporarlo nel Trattato di Maastricht.
È un’ottima occasione sia per rivedere i parametri di Maastricht (non perché definiti stupidi da Romano Prodi, ma perché non hanno retto alla prova di circa un quarto di secolo) ma per riformare la basi stesse dell’unione monetaria. Non è detto che l’unione monetaria sia, nella forma attuale, “irreversibile”, come ripete il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi. Nei secoli ci sono state unioni monetare che si sono dissolte quando le divergenze dell’andamento delle economie reali dei suoi Stati membri ne hanno fatto crollare i tessuti connettivi di base.
Non molto tempo fa su Formiche si ricordò che dopo la Seconda guerra mondiale, una quindicina di unioni monetarie si sono dissolte, di queste una si è ricostituita (dopo trent’anni dalla dissoluzione) e una sola (quella dell’Ue) è stata creata. Il nodo centrale non è se l’unione monetaria europea sarà “irreversibile” ed “eterna” o meno (nulla di umano lo è) ma come farla reggere e in caso di scioglimento evitare traumi troppo forti, ossia di farsi inutilmente male.
Occorre mettere in atto un sistema monetario simile a quello di Bretton Woods. Si può farlo senza tornare alle vecchie monete nazionale: su ciascun euro è indicata la banca centrale nazionale che lo ha emesso e, quindi, sotto il profilo tecnico non è difficile tornare a un accordo sui cambi (quale quello colloquialmente chiamato Sme) utilizzando come “parità centrali” quelle adottate nell’istituzione dell’euro. Perché ciò non sia l’anticamera della dissoluzione dell’euro, però, sono necessari altri due elementi: trasformare la Bce in un’istituzione simile al fondo monetario che monitori non questo o quel parametro, ma le politiche degli Stati membri e intervenga in modo fattivo, e finanziario, per schock di breve periodo e un’espansione del ruolo della Bei nel suo supporto agli Stati meno sviluppati.