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Eni, tutti i pericoli di Isis per l’Italia su petrolio e gas

Claudio Descalzi

I mercati energetici nel 2016 sono stati
 caratterizzati da marcata volatilità, indotta da 
una serie di fattori concomitanti: un eccesso 
di offerta (sostenuta anche dalle strategie dei maggiori produttori di greggio come Arabia Saudita e Russia e dalla ripresa delle esportazioni iraniane), il rafforzamento del dollaro statunitense e una crescita economica inferiore alle aspettative dei Paesi orientali. Sono dati che emergono dalla Relazione sulla Politica dell’Informazione per la Sicurezza del 2016 nella quale vengono anche indicati i pericoli di Isis per l’Italia su petrolio e gas.

FONTI E CANALI DI APPROVVIGIONAMENTO

L’andamento, nel corso dell’anno del prezzo del greggio con oscillazioni massime al di sotto dei 50 dollari USA al barile, ha favorito le produzioni dei Paesi della Penisola Araba e “indotto le maggiori International Oil Companies (IOC) e le aziende della filiera energetica a strategie di razionalizzazione dei costi e di ottimizzazione dei processi produttivi, dando vita, in alcuni casi, ad operazioni di concentrazione societaria. Dopo un accordo informale raggiunto a settembre per determinare una risalita dei prezzi, in occasione della Conferenza dei Paesi dell’OPEC di Vienna del 30 novembre, gli Stati membri hanno concordato di tagliare la produzione di 1,2 milioni di barili al giorno, riducendo l’output complessivo a 32,5 milioni. Sempre con la finalità di accelerare la crescita del prezzo del greggio, inoltre, il 12 dicembre i Paesi non-OPEC, per parte loro, hanno deciso di ridurre la propria produzione di 558mila barili al giorno“.

Per altro verso, l’abbondanza di greggio sui mercati che ha caratterizzato parte del 2016 ha contribuito ad attenuare gli effetti della contrazione produttiva di fornitori come la Libia, a causa delle perduranti tensioni interne, o la Nigeria, in relazione ai sistematici sabotaggi alle infrastrutture petrolifere.

LA LIBIA E L’APPROVVIGIONAMENTO ITALIANO

Stando al rapporto, “pur nel difficile contesto di instabilità interna, la Libia ha contribuito in misura significativa all’approvvigionamento energetico italiano, fornendo circa il 7% del gas e il 4% del petrolio importati dal nostro Paese nel corso dell’anno“.

Ciò grazie al fatto che non si sono verificati significativi danni alle infrastrutture gestite dalla joint venture ENI- NOC (l’ente petrolifero libico).

Nell’ottica del possibile incremento dell’output complessivo di greggio del Paese, la Relazione 2016 segnala la decisione assunta il 14 dicembre dalle brigate di Rayayina, villaggio a 30 km da Zintan, di riavviare dopo circa tre anni di blocco la produzione petrolifera dei giacimenti di Sharara (operato dalla spagnola REPSOL) ed Elephant (operato dall’Eni) verso, rispettivamente, la raffineria di Zawiya ed il complesso petrolifero di Mellitah“.

LE TENSIONI INTERNE

La tensione nell’area rimane alta, anche “perché le poche infrastrutture petrolifere funzionanti (Mellitah e Wafa in primis) sono diventate luoghi simbolo che catalizzano, per la loro visibilità, iniziative di dissenso con continue minacce di chiusura“.

A ciò si aggiungano le frizioni dovute alla conflittualità registrata in corso d’anno tra le Petroleum Facilities Guard (PFG) di Ibrahim Jadran e le forze fedeli al Generale Haftar per il controllo dell’Oil Crescent e dei principali terminal petroliferi per l’esportazione del greggio libico (Es Sider, Ras Lanuf, Zueitina)“.

Sullo sfondo di questi contrasti, si è posto il delicato compito (da parte del Governo di Unità Nazionale-GAN libico) di distribuire equamente i fondi ancora disponibili per il pagamento degli stipendi del personale – che sorveglia le poche infrastrutture petrolifere ancora funzionanti – e per la manutenzione ordinaria delle stesse.

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