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Perché serve un’Europa a due velocità

L’idea di dare vita a nuclei duri per spingere l’integrazione si è andata sviluppando man mano che le difficoltà del processo europeo si sono fatte più evidenti. È in questo quadro che si inserisce il rilancio da parte della cancelliera tedesca Angela Merkel di un’Europa a velocità differenziate. Il tema occupa da anni a fasi alterne il dibattito europeo e si ripropone ora con il carattere dell’emergenza, dovuta all’interazione nefasta fra Brexit e populismo antieuropeista, che acquista sempre più spazio anche sull’onda dell’effetto Trump. Un’emergenza che potrebbe sia promuovere una ritrovata coesione dei Ventisette, sia accelerare un processo di disgregazione di cui, per altri versi, si colgono vari segni.

Velocità differenziate e cerchi concentrici non rappresentano una risposta capace di restituire una dinamica positiva al processo europeo, nel quale convivono oggi più famiglie politico-ideologiche. Una prima, continua a rivendicare la centralità della costruzione di un’entità politica sovranazionale. Una seconda, ritiene questa ipotesi conclusa e punta a un mercato basato sulla collaborazione fra Stati sovrani. I Paesi dell’ex comunità socialista vedono nell’Europa soprattutto una garanzia di sicurezza nei confronti dell’espansionismo russo. Tutte si riconoscono nei principi di democrazia rappresentativa, diritti fondamentali della persona ed economia liberale, che sono alla base dell’idea stessa di Europa. Ma qui il discorso finisce: il solco – fra chi spinge per un’unione politica e chi la giudica superflua, chi punta a un nuovo soggetto politico europeo e chi guarda a un mercato unico di beni e servizi, chi vuole un’integrazione sovranazionale e chi la nega in radice – non è di metodo, ma di sostanza.

Prendere atto di ciò, non può che portare a una diversa dinamica: non velocità differenziate, non cerchi concentrici, ma percorsi separati. Un’Ue che si sostanzia in due Europe, capaci di sviluppare appieno le rispettive potenzialità senza sovrapposizioni e impedimenti. La prima, politica – l’Europa di Altiero Spinelli – parte dall’euro e mantiene fermo il traguardo di un’unione sovranazionale. La seconda, intergovernativa – l’Europa di Margaret Thatcher – parte dal mercato unico ed è ostile a compromissioni di sovranità. L’una e l’altra si muovono nell’ambito di un’Unione allargata, confederale – l’Europa di Coudenhove-Kalergi – garante del rispetto dei principi fondamentali dell’identità europea. Consentono velocità differenziate al loro interno e l’appartenenza non è rigidamente prefissata: la permeabilità è reciproca in funzione dell’evolversi della situazione e delle politiche. Hanno entrambe pari dignità, ed è intorno a esse che si gioca la possibilità di continuare a parlare di un progetto in grado di aggiornare l’ipotesi federativa da cui si era partiti.

Ci si potrebbe domandare se gli adattamenti richiesti da un impianto istituzionale come quello proposto siano la risposta giusta, posto che le esigenze di flessibilità sembrerebbero poter essere soddisfatte da un’integrazione differenziata, da sviluppare ulteriormente ma non da mettere in soffitta. Non è così. Le integrazioni differenziate prefigurano un carattere unitario del processo di integrazione che gli ultimi sviluppi hanno definitivamente negato. Anziché risolvere le interferenze inevitabili fra dimensione sovranazionale e dimensione intergovernativa, rischiano di produrre effetti paralizzanti (valga per tutti l’esempio della difficile convivenza fra in e out dell’eurozona).

Le due Europe, proprio perché rispecchiano meglio una realtà nella quale non vi è più un mantra comune, permettono di liberare risorse che, altrimenti, rischierebbero di accelerare i fenomeni di disgregazione. Esse tendono a obiettivi compatibili, non escludono la possibilità di punti d’incontro, rappresentano lo schema che meglio può assorbire gli shock attuali e quelli che si delineano oltre l’orizzonte e avrebbero consentito di affrontare con ben maggiore efficacia il nodo della Brexit, limitandone l’impatto dirompente e offrendo la possibilità di contenere la portata di nuovi opt-out. Ai puristi dell’idea europea può apparire ostico che l’Unione debba svilupparsi in futuro escludendo in via di principio per alcuni l’ipotesi sovranazionale, ma negare questa realtà non porta da nessuna parte.

La credibilità di un’Europa fatta in due, passa in primo luogo da quella dell’Europa di Altiero Spinelli. Senza di essa, l’euro, Schengen, le politiche sociali e last but not least sicurezza e difesa, non hanno futuro. Senza une vera integrazione sovranazionale, per converso, l’Europa di Altiero Spinelli perderebbe di senso: spetterà a quest’ultima definire se e chi sarà disposto a farne parte (che non è detto potranno essere gli stessi dell’attuale eurozona). Un passaggio difficile? Impossibile? Senza un simile passo avanti, verrebbe meno il parallelismo fra Europa sovranazionale e intergovernativa e l’Europa di Margaret Thatcher diverrebbe l’unico riferimento di un processo europeo fra Stati sovrani, volto allo sviluppo di un mercato unico di beni e servizi con un minimo di bardature istituzionali. Una tale Unione europea non si trasformerebbe in un pigmeo politico e rimarrebbe comunque un protagonista di rilievo sulla scena mondiale, ma sarebbe un’Unione più debole e più facilmente esposta al vento della contestazione e degli euroscetticismi; un’Unione meno coesa anche se più in grado, forse, di assorbire nuovi opt-out e frammentazioni del quadro comunitario. Sarebbe un’Unione molto lontana da quella di Spinelli e degli stessi fondatori della Comunità economica dei sei: basta rendersene conto.

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