La Brexit è cominciata. Un lungo processo che durerà due anni e, nonostante le speranze di chi ha manifestato a Londra, non sarà reversibile. Il dilemma è se sarà soft come spera Theresa May o hard come vorrebbe il ministro degli Esteri Boris Johnson. Molte le questioni aperte e molte se ne apriranno, quella politicamente più spinosa riguarda la Scozia che ha votato no alla Brexit: il parlamento di Edimburgo vuole un altro referendum sulla secessione, che viene negato da Londra (ancora per quanto?). Ma anche l’Ulster, dove il no alla Brexit è prevalso, sta meditando se ascoltare fino in fondo le sirene di Dublino. Dunque, non si tratta solo di aver rotto il legame con l’Unione europea, ma di rompere il Regno Unito.
Da oggi si entra in un ginepraio di interpretazioni dei Trattati. Ci sono in ballo questioni chiave come la fine del mercato unico e il ritorno a un intrico di dazi e tariffe doganali, la circolazione (e lo status) dei cittadini europei finché il processo non sarà compiuto e dopo, la giurisdizione dell’alta corte di giustizia, il conto finale da pagare al bilancio della Ue (un conto che per gli altri Paesi si trasforma in aggravio pro quota del contributo) e così via. Ci sarà tempo per entrare nel merito, punto per punto. Ma la Brexit non va ridotta a un problema contabile, alcuni nodi politici sono molto più preoccupanti.
L’immigrazione. Il sì ha espresso un chiaro rifiuto di nuove ondate migratorie. Ma attenzione, mentre per l’Europa continentale il conflitto è con il flusso fuor del comune di rifugiati dalla Siria e del Medio Oriente o con i migranti che vengono dal Nord Africa e dall’Asia, per gli inglesi la frattura è con gli altri europei. Si potrebbe dire che hanno meno paura dell’Isis che degli idraulici polacchi o degli studenti italiani i quali vanno a “rubare” il welfare britannico. La colpa ricade sulla crisi che ha innescato guerre tra poveri? Forse, ma se gli ospedali inglesi non funzionano più come una volta la colpa non è degli italiani (tanto meno di quelli che vengono assunti per fare i medici), bensì degli inglesi stessi, di come hanno realizzato e gestito un sistema sanitario del quale sono stati precursori e che molti altri Paesi (tra i quali l’Italia) hanno imitato e perfezionato. Ma, anziché assumersi le proprie responsabilità, è più facile cercare capri espiatori, meglio ancora se stranieri.
La sovranità. E’ un tema sensibile non solo oltre Manica. Tutti ormai, sia pure con accenti diversi, vogliono recuperare la propria sovranità. Quella monetaria, quella economica, quella legata ai confini, alla nazione (e c’è persino chi ritira fuori le radici etnico-razziali). Una totale illusione. Non solo perché “nessuno è un’isola” come scriveva un poeta inglese, John Donne, quattro secoli fa quando le isole britanniche cominciavano a espandersi nel mondo intero, ma perché la stessa Gran Bretagna è tributaria pressoché completa – dalla finanza all’esercito, dalla politica estera al potenziale nucleare – degli Stati Uniti. La storia non si cancella. Se così è per chi ha vinto la seconda guerra mondiale, ma ha perduto se stesso, figuriamoci per paesi sui quali pesa ancora la sconfitta.
La Germania. E veniamo all’altro capro espiatorio. La campagna per il sì, anche da parte di persone preparate come Boris Johnson, ha evocato spesso il predominio tedesco. L’Unione europea è stata dipinta come il Quarto Reich o, nelle varianti più benevole, come il Sacro romano impero germanico. Una propaganda che ha fatto breccia altrove, anche in Italia sia tra gli euroscettici sia tra gli stessi europeisti. Che ci sia uno squilibrio tra Berlino e gli altri Paesi non c’è dubbio. Che i tedeschi abbiano una parte di colpa è certo. Come minimo sono stati sordi, ciechi e muti beandosi del proprio egoismo, immemori degli aiuti ottenuti per l’unificazione e superare le proprie difficoltà, anche nei primi anni dell’unione monetaria. Ma la Germania odierna non è quella di Hitler né la Prussia di Bismarck. La sua costituzione, la sua memoria, i suoi comportamenti (si pensi ai rigidi limiti imposti all’esercito), tutto lo dimostra. Il modello è Weimar, quella di Goethe e quella di Gropius. Non solo. In un mondo in cui rinasce il nazionalismo, proprio la Germania si sta assumendo il compito di fare da argine. E questo ci porta a un altro tema sensibile.
Il protezionismo. La Gran Bretagna, spinta dagli Stati Uniti, ma anche per sua vocazione, è il Paese che più si è speso per la globalizzazione. A Londra è cominciato il big bang della borsa negli anni ‘80 e oggi resta una delle principali piazze mondiali. L’economia britannica è molto più aperta di quella americana. ll libero scambio (anche se non esattamente equo) è stato un principio base a partire dall’800 e ha contribuito a formare non solo l’economia, ma la filosofia dell’Inghilterra moderna. La Brexit, anche nella sua versione soft, è un formidabile contributo al neo-protezionismo. Gli inglesi saranno i primi a pagarlo. Ma tutti i Paesi il cui benessere dipende dagli scambi di merci (come l’Italia che tra l’altro ha molte meno risorse interne) ne soffriranno.
La politica. Si dice che il popolo è sovrano anche quando sceglie contro i propri interessi e contro i diritti dell’uomo (come avvenne in Germania nel 1933). E che gli inglesi hanno votato contro l’establishment, condannando l’arroganza dell’élite. La discussione è molto complessa e ci porta nei labirinti della dottrina politica dai quali ora è meglio restare fuori. La questione riguarda semmai proprio la classe dirigente. A un Paese che, in nome della pace e della tranquillità, aveva accettato che Hitler invadesse i propri vicini (il patto di Monaco del 1938) Winston Churchill promise “lacrime e sangue” per salvarsi dal nazismo. Il suo biografo Boris Johnson, il quale non è uno sprovveduto, ha cavalcato la tigre promettendo magnifiche sorti e progressive. Sta qui la differenza, e forse è una differenza fondamentale.