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Il piano infrastrutture Usa tra Repubblicani e Democratici

Un recente rapporto del Casmef, centro studi dell’Università Luiss Guido Carli, realizzato in collaborazione con la Deloitte, mette a confronto – tra l’altro – le modalità e le determinanti del finanziamento degli investimenti in infrastrutture nelle principali economie sviluppate (inclusa l’Italia) in settori strategici, quali ad esempio il trasporto, l’energia e le telecomunicazioni.

Emerge che negli Stati Uniti, negli ultimi 17 anni (2000-2016), l’industria della finanza di progetto (il cosiddetto project financing) ha registrato 109 operazioni nei settori sopra richiamati; ben inferiori alle 562 transazioni concluse in Europa nel medesimo periodo.

Se si confrontano i volumi di emissioni delle obbligazioni finalizzate a finanziare investimenti infrastrutturali (cosiddetti project bonds) sui mercati dei capitali statunitense ed europeo, la situazione si ribalta: l’importo medio di obbligazioni emesso ogni anno negli Stati Uniti è pari a 6,8 miliardi di euro, mentre quello europeo è circa la metà (3,6 miliardi di euro). Ciò è però spiegabile con il maggiore grado di finanziarizzazione dell’economia americana.

Il quadro sopra descritto la dice lunga sullo stallo degli investimenti in nuove infrastrutture negli Stati Uniti. L’infrastructure gap americano, da più parti segnalato, trova il suo evidente riflesso nei ranking internazionali: gli Stati Uniti si piazzano al 9° posto per nuovi investimenti in opere stradali in percentuale del Pil e al 18° posto nel Global Competitiveness Index per le infrastrutture predisposto dal World Economic Forum.

Più di 60mila ponti distribuiti nel territorio statunitense presentano difetti strutturali; i ritardi causati dal traffico costano all’economia americana 50 miliardi di dollari ogni anno. Vi è, senza dubbio, un gap da colmare mediante il ricorso a massicci investimenti in nuove infrastrutture, anche con lo scopo di favorire la crescita del Pil. In questo senso, basti pensare che il rinnovo delle infrastrutture di trasporto del gas e del petrolio o dei porti può essere determinante per le attività produttive o le esportazioni delle aziende statunitensi. Senza dimenticare che l’avvio di nuovi progetti infrastrutturali creerebbe occupazione a salari elevati per il segmento della popolazione con minor grado di istruzione: quella low e middle-class che nel sistema economico d’oltreoceano sta soffrendo più di ogni altra in questo momento.

Alla luce di tutto ciò, la risposta post-elettorale dell’amministrazione Trump appena insediatasi, non si è fatta attendere. Già poco prima del verdetto, i senior policy advisors di Trump si sono affrettati a redigere un rapporto, denominato “Trump versus Clinton on infrastructure”, nel quale – in sole 10 pagine dense di buoni propositi ed interessanti implicazioni – evidenziano le ragioni dei ritardi accumulati dall’economia americana sul fronte infrastrutturale (burocrazia “ostruzionista” ed inadeguatezza dell’innovazione finanziaria) e provvedono a fornire i primi suggerimenti pragmatici per il rilancio del settore. Ne è subito derivato, dopo l’insediamento del presidente Trump, un piano d’azione che prevede l’impiego di 1 trilione di dollari in nuove infrastrutture con l’indicazione di precise e innovative modalità di finanziamento (il cosiddetto “Trump Private Sector Financing Plan”).

Il partito democratico ha inteso rispondere a Trump presentando, a fine gennaio, un proprio piano alternativo (il cosiddetto “Blueprint to rebuild America’s infrastructure and create 15 million jobs”) e chiedendo al presidente una convergenza politica per approvarlo insieme nel più breve tempo possibile. Per la prima volta dai tempi del New Deal voluto da Roosevelt per accompagnare il Paese fuori dalla crisi del ’29, i democratici e i repubblicani si trovano d’accordo sulla necessità di fare elevati investimenti in nuove infrastrutture: la dimensione delle misure è lo stesso (1 trilione di dollari), lo scopo è il medesimo (rilanciare l’economia).

Tuttavia, i piani dei due partiti differiscono con riguardo a tre aspetti. Il primo concerne i settori nei quali investire: i democratici considerano, oltre alle infrastrutture del trasporto, della logistica e dell’energia, l’edilizia ospedaliera, scolastica e la rete internet. Il secondo è relativo alle modalità di finanziamento. Infatti, il piano dei democratici intende trovare le risorse finanziarie attingendo ai fondi del governo federale, ovvero innalzando la spesa pubblica; il piano Trump prevede un’iniziale sostegno dello Stato che, facendo da catalizzatore, dovrà attrarre – con evidenti e benefici effetti moltiplicativi – il settore e il risparmio privati. Si tratta della storica e ricorrente contrapposizione tra il modello di un’economia keynesiana e quello di un’economia liberista ispirata al principio del laissez-faire. I democratici sostengono il primo modello, secondo cui se il reddito affrancato dal consumo con la decisione di risparmiare non trova utilizzo in corrispondenti decisioni di investimento (ad esempio, in impianti e beni strumentali), si affida all’azione pubblica il compito di intervento strategico per il pieno utilizzo delle potenzialità produttive del sistema economico.

Quando la spesa (nelle sue componenti del consumo e dell’investimento) risulti insufficiente (determinando pressioni deflazionistiche) o eccessiva (determinando insorgenze inflazionistiche), il soggetto pubblico interviene per stimolare o frenare la domanda, a seconda delle esigenze, con provvedimenti di politica monetaria diretti ad influire sul costo e la disponibilità del credito e di politica economica mediante variazioni della spesa pubblica (ad esempio, al rialzo per sostenere consumi ed investimenti, nel caso sia necessario innalzare l’occupazione).

I repubblicani, con il piano Trump, sostengono invece il liberalismo economico, promuovendo il non intervento dello Stato e affidando all’iniziativa privata il meccanismo di aggiustamento operante nel sistema economico per innalzare reddito e occupazione. La principale implicazione del modello keynesiano seguito dai democratici è l’incremento della spesa pubblica che esige una copertura mediante ricorso a nuove entrate fiscali o all’emissione di debito (titoli del Tesoro); aspetto che evidentemente è assente nel modello di Trump, caratterizzato dall’uso di risorse prevalentemente private. Il terzo aspetto che differenzia il Piano dei repubblicani da quello dei democratici è il modesto grado di innovazione finanziaria che questi ultimi prevedono di promuovere: solo 1,3 milioni di dollari sono dedicati alla nascita di nuovi strumenti finanziari per accrescere gli investimenti in infrastrutture.



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