A pochi giorni dal 31° anniversario di Chernobyl, i dati in costante crescita dei tumori nel nostro nordest e nei Balcani ci obbligano a pensare. Anche perché l’uranio ci mette 4,5 miliardi di anni per dissolversi. Ma intanto il vento dell’est continua a soffiare
C’è una strada, là nell’estremo nordest italiano, che collega la splendida costiera triestina alle pianure e alle colline friulane e più oltre a quelle del Veneto. La gente del posto la chiama “Il Vallone”, perché corre come un profondo tunnel senza copertura dove si incanalano e si stringono, prendendo così ulteriore forza e velocità (effetto Venturi lo ha battezzato la fisica, lo stesso su cui si basa il funzionamento dei motori a reazione) i venti di bora. Vi si incanalarono e la percorsero – quei venti che non hanno né un’agenda di impegni da rispettare, né tantomeno bisogno di passaporto – anche qualche tempo dopo il 26 aprile 1986, data che porta con sé anche un nome terribile: Chernobyl. Sì, succedeva 31 anni fa, in quella che ai tempi si chiamava Urss. Ricordate la centrale nucleare esplosa?
Portarono da allora, sempre quei venti, il loro soffio gravido di radioattività. Nessuno ovviamente se ne accorse, perché la radioattività non ha colore o tantomeno odore. Nessuno nemmeno ci pensò, allora: né alla bora né al Vallone. “Poveretti – fu il pensiero sincero della gente di quei luoghi, così come di tutta la gente di buona volontà del resto del mondo, pensando alle vittime – ma l’Urss è lontana”.
Errore. Perché poi, a partire dai primi anni Novanta, alcune cose cambiarono, là nel nordest. Leucemie, linfomi e altre terribili forme tumorali che fino a quella data rientravano nella pur atroce “normalità” dei range epidemiologici, iniziarono a diffondersi seguendo una curva iperbolica. Al punto da costringere un ospedale importante e attrezzatissimo come quello di Udine ad aprire in tempi strettissimi un reparto dedicato di Ematologia oncologica del quale fino ad allora non c’era stata fortunatamente necessità.
Chi scrive, questa cosa non se l’è purtroppo inventata: quella scelta emergenziale se la sentì raccontare direttamente dal primario (a distanza di tanti anni la memoria fa cilecca sul nome) chiamato in tutta fretta da Bologna a ricoprire quell’incarico. “Vedesse che cosa sta succedendo nel Vallone – spiegò a me che, precipitatomi lì da Milano, gli chiedevo quali speranze ci fossero per mia madre colpita da leucemia – In quei paesini sembra passata una gigantesca falce che non risparmia nessuno, né i vecchi né i bambini. È stata la bora respirata, senz’altro, ma soprattutto le cose mangiate, i frutti della terra”. E io li vedevo, nei corridoi, quei bambini. Li vedevo pur con gli occhiali appannati dal vapore delle lacrime e trattenuto dalla mascherina protettiva che portavo: non avevano più capelli, per effetto delle chemioterapie, eppure correvano in pigiama, così come corrono sempre i bambini. “Sono loro che aiutano noi – mi disse il primario – e aiutano per primi i loro genitori distrutti. Sono anche informatissimi, capiscono e sanno del loro male più degli adulti. Eppure sono molti più forti di loro, corrono e sorridono”. Cosa che mi sarei sentito ripetere tanti anni dopo, altrove, nei racconti commossi dell’oncologa milanese che è diventata mia moglie, come comportamento ricorrente tra i malati di cancro più piccoli.
Per mia madre le speranze si spensero, ahimè, due anni dopo. E l’anno successivo fu così per sua sorella, con un esordio e un epilogo della malattia davvero fulminanti. Giorni neri, giorni di rabbia, giorni nei quali ti chiedi da che parte stia guardando il Padreterno.
Ma a riportarmi a quei giorni, qualche sera fa, è stato dalla televisione il professor Giuseppe Di Bella, figlio di quel Luigi il cui metodo di cura meno invasivo contro i tumori (grazie a un mix di somatostatine, ciclofosfamide, ACTH e melatonina) fu bocciato nel 1999, tra le proteste e il dolore raddoppiato dei malati, dal ministero della Sanità dell’epoca (Rosy Bindi) al termine di una sperimentazione sulla quale buona parte della comunità oncologica mondiale nutre ancor oggi seri dubbi. Così come la stessa comunità nutre altrettante fondate certezze in merito alla validità scientifica di quella cura, almeno per determinati tipi di tumori. Tanto per dire che non si tratta di una boutade polemica e infondata, l’autorevole sito specializzato Medline riporta 28mila voci relative all’efficacia antitumorale di quel metodo. Lo riconobbe, di certo tardivamente, non molto tempo prima di morire, anche il professor Umberto Veronesi. Ma questa è tutta un’altra storia.
Ritornando invece a Di Bella junior e a quella trasmissione di qualche sera fa alla tv cremonese Telecolor (specializzata nelle tematiche della salute e della medicina), proprio in chiusura di puntata il medico emiliano ha accennato ai preoccupanti dati epidemiologici che giungono oggi dal nordest italiano. Dati “geografici” che qualsiasi oncologo impegnato nei maggiori centri ospedalieri italiani dove si accolgono anche tanti pazienti extra regione, ma soprattutto quelli operanti in quell’area del Paese, potrebbe oggettivamente confermare. Di Bella ha citato uno di quei dossier medico-scientifici che di norma, in analoghe trasmissioni delle maggiori emittenti televisive, sia di Stato sia commerciali, vengono prudentemente ignorati per non preoccupare. “C’est mieux glisser”, per dirla alla francese. Meglio privilegiare – come è sacrosanto che sia, ci mancherebbe! – notizie di successi e di vittorie, anche se in verità questa non è proprio quel si dice una completa informazione.
Comunque, la notizia è che nel nostro nordest – oggi! – la curva di crescita delle malattie tumorali continua a impennarsi. E questo per il combinato disposto degli effetti ancora attivi della citata fuga nucleare dalla centrale di Chernobyl e di quelli più recenti dei bombardamenti Nato durante la guerra dei Balcani (1996-1999). Gli esiti di quei 78 giorni di pioggia di ordigni all’uranio sono stati e continuano a essere peggio di quelli di un’altra guerra. Ma paradossalmente in tempi di pace. Perché si calcola che negli ultimi dieci anni, in Serbia, il cancro alla tiroide sia aumentato del 300%, mentre i sarcomi sono in rapida crescita così come le leucemie. Autorevoli scienziati, all’epoca, avvertirono che l’uranio non è soltanto radioattivo, ma soprattutto chimicamente tossico. Tre volte tossico, considerate le sue possibilità di avvelenarci. E cioè contatto diretto con la pelle, inalazione di polveri disperse con le esplosioni e da ultimo la più subdola e insidiosa, nonché quella dalle incalcolabili e inarrestabili capacità di diffusione: la contaminazione dell’acqua e conseguentemente della terra, che continua senz’altro a darci ancora i suoi frutti, ma avvelenati.
Per misurare l’orrore attuale e in divenire di quei fatti, oltre a quello del momento, basterebbe ricordare i tempi di dissolvimento dell’uranio, brutta bestia dura a morire, ma vitalissima nel continuare a far morire. Gli esperti infatti ci dicono che la sua “longevità” è di 710 milioni di anni per quello del tipo 235 e di 4,5 miliardi di anni (!!!) per quello di tipo 238. E sul Kosovo sono stati buttati tre volte più proiettili che nel sud della Serbia.
All’esplosione di una bomba, l’80% diventa polvere – l’ossido di uranio – che il vento distribuisce fino a quaranta chilometri, portandolo nei polmoni e nei reni e facendolo depositare poi nel corpo e nelle ossa. Gli stessi soldati americani impegnati in un’altra guerra, quella del Golfo, hanno pagato un conto salato. Studi di medici statunitensi dimostrano che il 70% dei loro uomini uomini dispiegati su quel fronte, pur se “protetti” da tute speciali che la popolazione di certo non aveva, ha avuto bambini con difetti genetici. Che cosa può essere successo, allora, alle persone che vivevano lì. E che cosa starà succedendo, ancor oggi, per colpa della longevità di quella brutta bestia?
La cosa più terribile, ritornando ai Balcani, è tuttavia la contaminazione di acque e terreni e la sua penetrazione nella catena alimentare. Vale la pena rileggere l’intervista data qualche anno dopo dal tossicologo serbo Radovan Kovacevic. “In Croazia abbiamo trovato animali selvatici contaminati con uranio. Qui in Serbia, abbiamo trovato tracce di uranio in cervi e fagiani. I nostri veterinari hanno notato una forte crescita di leucemia in capre, pecore e mucche. A volte i proiettili all’uranio cadevano nei fiumi, uno è anche finito in un pozzo, nel sud della Serbia. Abbiamo esaminato il contadino che stava cercando di ripulire il pozzo: aveva 3759 nanogrammi di uranio, 238 per litro di urina! Naturalmente, quell’agricoltore morì poco tempo dopo. E in Serbia, oggi, viene diagnosticato un cancro ogni giorno ad almeno un bambino”.
Ma la bora, che come tutti i venti non ha né un’agenda di impegni da rispettare, né tantomeno bisogno di passaporto, continua a soffiare e continuerà a farlo. Sui Balcani e da lì fino sul nostro nordest. Perché è così che le guerre moderne continuano a fare la sola cosa che sanno fare anche dopo la firma dei trattati di pace: uccidere.