A sorpresa, ma neanche troppo. Il Primo Ministro conservatore Theresa May decide di andare alle elezioni l’8 giugno, ben sapendo che il risultato è in gran parte già scritto.
Con questa mossa, Theresa May rivela uno dei tasselli cruciali del suo progetto politico. Un progetto iniziato 9 mesi fa da quando ha preso il controllo del partito conservatore, e che ha vissuto un passo fondamentale con l’invocazione dell’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea il 29 marzo, ufficialmente iniziando il processo della uscita del Regno Unito dall’Ue.
La strategia è chiara e punta a rinforzare l’esecutivo su due livelli, uno interno e uno internazionale. Sul piano interno il partito laburista, quello che dovrebbe essere il principale competitore per guidare il Paese, è ai minimi storici con il 23%, mentre i conservatori sono dati al 44%. La leadership di Jeremy Corbyn, pur mettendo in risalto dei temi su cui la maggior parte dei britannici è d’accordo (come la riforma dell’educazione, maggiore equità sociale, investimenti in infrastrutture) non riesce a convincere l’elettorato.
Mentre il Labour è il maggiore partito per numero di militanti in Europa, i parlamentari sono estremamente avversi a Corbyn, ancora di più in questo momento che molti rischiano di perdere il posto. Se le cose vanno come i sondaggi dicono, infatti, i conservatori che già hanno una maggioranza assoluta potrebbero guadagnare ben 50 seggi. In sei settimane è molto difficile cambiare tali percentuali di consenso, ma come può un partito di opposizione rifiutarsi di andare a elezioni anticipate? Dai banchi conservatori, intanto, fanno notare con malizia che la parte del Labour avversa a Corbyn accoglie bene le elezioni, ben sapendo che potrebbero mettere la pietra tombale sull’era Corbyn.
Sul piano internazionale la May punta ovviamente a ottenere un mandato forte per una hard Brexit, rafforzando la propria posizione negoziale nei confronti dell’Unione Europea. Per hard Brexit si intende che pur di riprendere il controllo delle frontiere, Downing Street è disposta a uscire dal mercato unico. La mossa elettorale zittirebbe quanti sostengono che questa idea di Brexit non era nei patti del referendum, i cui contorni erano di fatto così vaghi da lasciare un assegno in bianco all’esecutivo.
Fra i maggiori sostenitori della Brexit c’era l’UKIP, il partito demagogico di destra, che però con la vittoria al referendum ha perso la sua ragione di esistere. Non a caso poche settimane fa l’unico parlamentare che l’UKIP era riuscito ad eleggere è uscito dal partito. Sul versante opposto, gli unici a continuare ad opporsi alla Brexit sono i LiberalDemocratici, che potrebbero capitalizzare dalla debolezza del Labour, pur rimanendo un partito troppo piccolo per negare la maggioranza ai conservatori.
La più grande incognita rimante tuttavia le Scozia. Nazione tradizionalmente di sinistra, ha definitivamente affossato le possibilità del Labour di ritornare al governo da quando si è convertita a larga maggioranza al Partito Nazionalista Scozzese. La leader del PNS Nicola Sturgeon ha fatto sapere circa un mese fa, vista l’intenzione di Downing Street di procedere con un hard Brexit, che sta valutando un secondo referendum per l’indipendenza scozzese.
L’uscita della Scozia sarebbe un duro colpo per Londra, che passerebbe dall’essere capitale della Gran Bretagna a quella di una piccola Inghilterra. Tuttavia, un secondo referendum nasconde diverse incognite anche per Edimburgo. Intanto perché la Scozia riceve dal Regno Unito più dei soldi che dà. Poi la sua successiva entrata nell’Unione Europea potrebbe non essere così scontata dal momento che Stati Membri che si confrontano con forti regionalismi potrebbero porre il veto pur di evitare un pericolo precedente. Fra queste spicca la Spagna, che però coi fatti di Gibilterra potrebbe cambiare opinione. Fatto sta che la Scozia mal sopporterebbe lo strapotere conservatore che, a meno di colpi di scena, si prospetta per i prossimi quattro anni.