Gli iscritti decideranno come sul blog di Beppe Grillo, ma l’obiettivo è ormai fissato: “Lavorare meno, lavorare tutti”. Il futuro ha un cuore antico, e anche il M5s riscopre il fascino di uno slogan che da un paio di secoli campeggia nell’immaginario collettivo e che più assimila le società utopiche al Paese di Cuccagna.
Sebbene sia senso comune che la disoccupazione si cura anzitutto creando nuovo lavoro, l’idea che la redistribuzione di quello esistente possa almeno alleviarla conferisce attrattiva alle proposte di riduzione dell’orario, magari per reagire all’impotenza e alle terapie inefficaci dei governi. Niente di male, sia chiaro. Nessun visionario ha mai promesso un lavoro che non fosse più corto. Questo è logico: si lavora per vivere, non si vive per lavorare. Altri, più iconoclasti, hanno elegantemente elogiato l’ozio. Lo ha fatto Paul Lafargue (che era il genero di Marx), così come Bertrand Russell, che da gran signore ha decantato la giornata di quattro ore senza soffermarsi sull’ammontare della paga.
Questo tipo di suggestioni, che hanno infinite varianti, sono avversate dagli economisti con l’accusa che i conti non tornano e con un richiamo ai nodi cruciali della produttività e dei costi. In estrema sintesi, interventi generalizzati o uniformi sulla durata del lavoro prestano il fianco a diverse obiezioni: riduzioni d’orario con aumento della retribuzione non sono possibili (non verrebbero mai accettate dagli imprenditori); riduzioni d’orario a parità di salario non sono più pensabili, perché la produttività da spartire verrebbe in tal modo devoluta agli occupati anziché ai disoccupati; riduzioni d’orario con riduzioni di paga non sono sempre gradite a chi dovrebbe fruirne (nelle aziende che hanno seguito l’esempio Wolkswagen del 1993, l’orario ridotto con paga ridotta ha contribuito ad arginare i licenziamenti, non ad aumentare le assunzioni).
L’abbattimento del tempo di lavoro è stato suggerito anche per trasformare l’opprimente giogo della disoccupazione di massa nella felice opportunità di un “ozio attivo” a cui “rieducare” la popolazione: tanto, invenzioni e innovazioni incrementeranno la produttività del lavoro in modo che “la ricchezza prodotta dalle macchine [sia] redistribuita equamente tra tutti i cittadini”. Nel caso, poi, i disoccupati risultassero troppi si passerebbe a un nuovo Stato sociale: “Invece di retribuire il lavoro e non il tempo libero, sarà retribuito il tempo libero e si lascerà lavorare gratuitamente i pochi che ancora si ostineranno a farlo [corsivo mio]” (così scriveva Domenico De Masi già nel 1994, in Sviluppo senza lavoro).
Ebbene, ammettiamo pure di usare contro la disoccupazione di massa il rimedio omeopatico dell’ozio attivo, ma -forse il mio sarà un pensiero retrogrado – chi chiede un lavoro chiede di essere remunerato, chiede un compenso monetario. Vogliono essere pagati i lavoratori creativi, figuriamoci gli altri. “Liberare i senza lavoro dalla schiavitù del lavoro non è certo difficile: ma come liberarli dalla schiavitù del bisogno che li ha fatti iscrivere nelle liste dei senza lavoro? (Aris Accornero, Era il secolo del lavoro, il Mulino, 2000).