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Trump parla di Pyongyang e pressa Cina e Seul

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Durante un’intervista alla Reuters il presidente degli Stati Uniti Donald Trump è tornato, tra le altre cose, sulla crisi nordcoreana. Ha annunciato che le cose potrebbe andar male, potrebbe esserci un “major, major” conflitto, ma ha sottolineato che la linea che Washington vuol tenere in questo momento è quella diplomatica. Sanzioni, isolamento durissimo, tentativi di negoziati anche sfruttando la Cina: molto simile a quello che è stato fatto finora, infruttuosamente, dall’amministrazione Obama; una volta Barack Obama disse che con Pyongyang ormai le opzioni erano strettissime, perché con le sanzioni era praticamente stato colpito ogni settore, e anche alzarne di nuove sarebbe stato difficile.

Tra le parole del presidente americano si può leggere che lo storytelling atomico cresciuto dietro al pazzo dittatore nordcoreano nelle ultime settimane può anche essere una leva per raggiungere altri risultati (nota: questo non vuol dire che l’Atomica del Nord non sia un problema reale di per sé).

Trump dice che ha avviato un colloquio proficuo con il presidente cinese Xi Jinping, lo sta conoscendo bene, ha detto, e sa che Pechino si è messa al lavoro per risolvere quello che l’amministrazione americana considera la sua più grossa rogna in politica estera. Cercare di coinvolgere la Cina su un indiscutibile problema come l’Atomica in mano a Kim Jong-un, è parte della strategia di Trump per poi ottenere in cambio un riequilibrio commerciale con Pechino. Un’operazione molto difficile, ma piuttosto chiara se si pensa che contemporaneamente al grosso interesse che la Casa Bianca sta facendo riversare sul dossier nordcoreano sono partiti dei negoziati della durata di 90 giorni tra funzionari cinesi e americani con tema centrale il commercio.

Sotto quest’ottica: durante l’intervista alla Reuters Trump ha anche annunciato che non parlerà nuovamente con la leader taiwanese Tsai Ing-wen. Della possibilità di un nuovo colloquio telefonico, dopo quello di dicembre scorso, si era parlato in questi giorni, ma il presidente americano dice apertamente che eviterà il contatto per non indispettire Xi – la Cina considera Taiwan un’illegittima provincia ribelle.

A proposito di riequilibri, nella parte della lunga intervista in cui si è parlato della Cina e della Corea del Nord, Trump ha affrontato anche il tema dei rapporti con Seul. La Corea del Sud è una dei principali alleati americani nel Pacifico (insieme al Giappone), è il principale cliente per gli armamenti made in Usa, e ha con gli Stati Uniti un accordo commerciale, il KORUS, la cui negoziazione è iniziata ai tempi dell’amministrazione Bush (figlio) e si è chiusa nel 2012, sotto Obama e per intenso impegno di Hillary Clinton, che ai tempi era segretario di Stato. Trump dice che il KORUS, “un accordo orribile negoziato da Hillary”, sarà completamente rivisto o chiuso, perché è sconveniente per Washington. I dati in effetti parlano a suo favore: lo sbilancio commerciale da quando è entrato in vigore è raddoppiato; nel 2011 era di 11,4 miliardi di dollari, nel 2016 è salito a 27,7.

Bilanciare i rapporti con alleati e costruire intese con gli avversari è da sempre considerata la via con cui l’amministrazione Trump traduce in strategia di lunga durata i claim come “America First”.

Nell’ottica (forse) di forzare la situazione e usare la narrazione come leva per il riequilibrio strategico, Trump ha anche chiesto a Seul di pagare per il dispiegamento nel territorio coreano del sistema anti missilistico Thaad (acronimo di Terminal High-Altitude Area Defense), che come ha spiegato il presidente americano “è fenomenale”, perché serve a “colpire i missili quando sono in cielo” (che è un modo molto basico ma efficace per far capire a tutti cosa rappresenta quell’acronimo esotico che nasconde una definizione tecnica), ed è considerato un’arma di difesa per eventuali attacchi della Corea del Nord con missili balistici. Lo schieramento era stato già concordato dall’amministrazione Obama, e la fase operativa è iniziata a marzo, con i primi mezzi arrivati in questi giorni – portandosi dietro le proteste degli abitanti dell’area di Seongjiu e quelle cinesi che lo ritengono uno strumento con cui Washington li spierà.

Il costo del Thaad è di circa un miliardo di dollari (secondo l’Aerospace & Defense intelligence Report 800 milioni). Sono tanti fa capire Trump e per questo serve che Seul contribuisca. Il ministro della Difesa della Corea del Sud ha risposto in un comunicato sostenendo che “non c’è alcun cambiamento al deal esistente, con il quale Seul offre il terreno per la distribuzione, mentre Washington si prende sulle spalle il costo di installazione e di funzionamento del sistema”. Il potenziale vincitore delle elezioni che si terranno il 9 maggio, Moon Jae-in ha replicato a una richiesta di commento alla Reuters che l’idea di Trump è “un’opzione impossibile”.

“Vogliamo mantenere Thaad nel nostro arsenale, in linea con tutti gli altri sistemi di armi statunitensi dispiegate nella penisola coreana. Noi li possediamo. Noi li manteniamo. Così abbiamo il diritto di ridistribuirli”, ha detto all’agenzia di stampa un ex funzionario del dipartimento di Stato, parlando in condizione di anonimato.

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