Non voglio fare confronti tra la violenza scatenata dal narcotraffico in Messico e la crisi sociale che vive il Venezuela. Sono entrambe realtà terribili, ma diverse. Eppure, è da un giornalista ed scrittore messicano che prendo in prestito la descrizione di un sentimento, una sindrome che patisco da tempo, come altri venezuelani, e che in questi giorni si fa sentire ancora di più.
IL SENSO DI COLPA DEL SOPRAVVISSUTO
Il giornalista si chiama Diego Enrique Osorno ed è autore del libro Z. La guerra dei narcos (edito in Italia da La Nuova Frontiera). Osorno scrisse che un suo amico gli aveva detto che soffriva di “senso di colpa del sopravvissuto”. “Ho controllato il mio elenco di persone conosciute che sono state assassinate in questo contesto storico – si legge nel libro di Osorno – e ho contato 15. Quattro donne e undici uomini che ho conosciuto alcuni superficialmente, in circostanze di lavoro (una conferenza stampa, la visita ad un quartiere, un incontro istituzionale) e che un giorno sono scomparsi in questa nebbia macchiata di rosso… Ogni volta che mi informano della morte di qualcuno che ho conosciuto, arriva il momento in cui mi chiedo: Perché muoiono loro e non io?, Arriverà il mio turno? Sarò anch’io uno di quelli epitaffi di ‘danni collaterali’ che si trovano sempre di più nei cimiteri messicani?”.
CARACAS, UN CAMPO DI BATTAGLIA
Anche io soffro il senso di colpa del sopravvissuto. Come se la crisi del Venezuela fosse un terremoto, uno tsunami. E chi è uscito dal Paese per tempo è salvo. In questi giorni di tensione, quel senso di colpa pesa ancora di più, come una vecchia frattura che si fa risentire appena arriva il freddo.
Da un mese Caracas, la mia città, è un campo di battaglia. Per i venezuelani non sono esaurite soltanto le scorte di cibo e medicine, sono finite anche la pazienza. Alcuni colleghi giornalisti sono stati aggrediti mentre seguivano le proteste dell’opposizione; familiari e amici sono finiti in ospedale per mancanza di farmaci; i bambini della scuola del mio quartiere sono scappati di corsa perché le bombe lacrimogene hanno reso l’aria irrespirabile… Tutti episodi che mi toccano. Perché poteva capitare a me.
YIBRAM, IL FIGLIO DEL DIFENSORE
Forse lo stesso senso di colpa del sopravvissuto ha colpito Yibram Saab Fornino, figlio di Tareck Williams Saab, attuale Defensor del Pueblo (Difensore civico, una figura istituzionale che esiste in Venezuela ed è simile all’Ombudsman svedese). Yibram ha 20 anni ed studente di Diritto. La sera del 26 aprile, dopo che è stata confermata la morte del giovane Juan Pernalete – anche lui 20 anni, anche lui studente universitario -, Yibram ha postato in rete un video nel quale legge una lettera per il padre. C’è lui in primo piano, con il viso scottato dal sole e il buio alle spalle. Afferma che né lui né i suoi fratelli sono stati minacciati e che la sua posizione è spontanea. “Oggi è morto un ragazzo per la brutale repressione delle forze dell’ordine contro la manifestazione dell’opposizione, dove c’ero anche io. Una bomba lacrimogena l’ha colpito sul petto. Poteva capitare a me”. Per un minuto e 51 secondi legge il foglio che ha in mano. Ma alza lo sguardo quando parla al padre, Tareck Williams Saab: “Papà, hai il potere di porre fine a questa ingiustizia […] Lo so che non è facile, ma è la cosa giusta da fare”.
UNA PICCOLA CERTEZZA
Molti colleghi non credono al video di Yibram. Nemmeno che lui sia stato contagiato dalla sindrome del sopravvissuto. Altri invece dicono che era compagno di scuola dell’altro ragazzo morto, Juan Pernalete.
Un amico scrittore, Luis Yslas, mi ricorda il pensiero di Dostoevsky: La sfiducia assoluta solo può condurre, logicamente, al suicidio. Ci fidiamo, dunque, anche ad una piccola certezza, per continuare a vivere. Un’alternativa per sopravvivere.
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