Il cattolicesimo attraversa una crisi profonda e prolungata. La frequenza e la pratica religiosa sono in diminuzione, vittime di un declino che è anche demografico e anagrafico: nelle chiese si incontrano soprattutto persone anziane oppure giovanissimi, come se nella maturità insorgesse un rifiuto fisiologico. Ma persino le vecchiette che un tempo si incontravano ai rosari, magari anche per passare il tempo, ora sembrano distratte da altro: probabilmente dalla televisione, che nella fascia agée resta un mainstream potente, forse pure da Internet e dai social network, dove gli anziani sono meno infrequenti di quanto si pensi. Le chiese sono vuote e il patriarca di Venezia propone di destinare le meno frequentate ad altri utilizzi, seguendo una tendenza già in corso: a Bitonto, per esempio, nei giorni scorsi la splendida cattedrale è stata destinata a una serata culturale e tanti luoghi di culto, come Santa Maria in Trastevere, sono adibiti almeno occasionalmente a sala da pranzo o dormitorio per persone bisognose.
Così pure, sono in calo le vocazioni religiose. Quelli del prete e della suora sono mestieri che gli italiani non vogliono più fare e dobbiamo ricorrere all’immigrazione extracomunitaria, come si diceva di portieri, benzinai, braccianti agricoli e operai di fonderia. Del resto le vocazioni in passato erano fortemente spinte da necessità e opportunità: conventi e seminari venivano scelti da molte famiglie anche senza chiamate particolarmente folgoranti. Naturalmente, queste tendenze ammettono le eccezioni e ogni tanto capita di incontrare in una parrocchia sacerdoti italiani giovani, ben consapevoli della loro missione, e fedeli vivaci, partecipi, coinvolti.
Certo, resta l’impressione che i riti cattolici siano legati a un tempo perduto e che il loro aggiornamento (qui si potrebbe inserire l’inesausto dibattito sul Concilio Vaticano II) rischi di isolarli ancora di più, privandoli di quel senso del sacro che si fonda sul mistero e sulla diversità dal tempo secolare senza fornire loro l’appeal di uno show o di un concerto rock. Messe rallegrate, si fa per dire, da siparietti musicali di scarsa qualità, a cura di cori parrocchiali privi dei minimi rudimenti di musica e di canto. Messe appesantite da prediche troppo lunghe, nonostante i reiterati inviti alla concisione da parte dei pontefici, genericamente esortative e quasi mai legate alle letture del messale (qui si aprirebbe un altro dibattito infinito sulla scelta di alcuni brani, soprattutto veterotestamentari). Per non dire poi della confessione, che neppure i frequentanti concepiscono più come ineludibile, poiché sfugge loro il senso del peccato, annullato da una presunzione di infinita, continua e automatica indulgenza del Padreterno.
Questa è la parte più delicata. Banalizzando, nel momento in cui le società avanzate occidentali attraversano una cupissima crisi di senso e in cui culture e ideologie che un tempo inquadravano le azioni di milioni di uomini sono scomparse o ridotte al lumicino, la religione e i religiosi potrebbero recuperare una fondamentale funzione di “psicanalisi gratuita”. E invece, curiosamente, accade il contrario. Per parafrasare Chesterton, una volta che si è smesso di credere negli uomini non si è creduto più neanche in Dio. In questo ha inciso anche un fenomeno complesso, che solo pochi osservatori come Ida Magli hanno colto con piena lucidità: l’insistenza con cui secoli la Chiesa degli ultimissimi secoli ha ridotto quasi tutto il rapporto con Dio agli aspetti morali, inclusi i meno rilevanti, per esempio quelli relativi al sesso. Tra ‘800 e ‘900 si è innescata un’assurda schematizzazione per la quale i conservatori hanno cominciato a chiedere maggior rigore nel rispetto delle regole, quando nella tradizione ecclesiale queste sono sempre risultate secondarie rispetto all’accettazione dei fondamentali di fede e all’unicità del cattolicesimo. Pensiamo al commercio delle indulgenze, ai giubilei, ai papi, cardinali, vescovi, preti, frati e suore assassini, stupratori, ladri, incestuosi giunti ai vertici della Chiesa, in alcuni casi provocando la rivolta dei fedeli. In qualche modo, la riforma luterana si può ricondurre proprio alla protesta contro una comunità dove l’appartenenza conta più della sostanza.
In epoca moderna, invece si afferma il modello cattolico della buona condotta che però nella seconda metà del Novecento entra in conclamata crisi: anche i fedeli cominciano a comportarsi come vogliono, a non seguire divieti e prescrizioni, il secolarismo e il relativismo colpiscono anche altre culture, come quella comunista. Momenti topici di questo processo, in Italia, sono ovviamente i referendum su divorzio e aborto. Ma non meno importante è l’evaporazione del catechismo, per cui oggi moltissimi cattolici non sanno nemmeno cosa dovrebbero e cosa non potrebbero fare (se ne è parlato di recente a Tempo di libri). E siamo al disarmo di oggi: l’appartenenza ecclesiale cede, la religione cattolica perde la forza che dovrebbe stare nel sostantivo, quella appunto di ‘legare’ le persone a Dio, ai fratelli di fede e alle strutture ecclesiali.
Riassumendo con le parole di Benedetto XVI, Dio ha perso importanza per gli uomini: Nietzsche avrebbe detto che è morto, ma l’espressione di Ratzinger è anche filosoficamente più corretta poiché che Dio esista o meno dipende solo da noi. Benedetto con il suo ritiro ha però dato un colpo fondamentale anche alla già tanto compromessa importanza della Chiesa. Il pontificato di Francesco si inserisce in questo scenario. Bergoglio è in qualche modo il presidente, direttore generale e amministratore delegato della Chiesa, ne è il capo supremo e il lìder maximo: dunque sta a lui, se i fedeli calano, recuperarli. Il problema è che Francesco contraddice esplicitamente il modello che lega assieme monoteismo, proselitismo ecclesiale e primato della religione: “Io credo in Dio. Non in un Dio cattolico, non esiste un Dio cattolico, esiste Dio”, sono sue parole. La frase è ineccepibile razionalmente, ma sul piano confessionale è clamorosa, quanto la scarsa attenzione mediatica che l’ha circondata. Noi la riprendiamo dalla recensione, firmata da Gennaro Sangiuliano sulla Domenica del Sole-24 ore, di un libro di grande interesse: “266 Jorge Mario Bergoglio. Franciscus P.P.”, pubblicato con l’editore maceratese Liberilibri da Aldo Maria Valli, uno dei vaticanisti che cercano di rifuggire dalla contrapposizione tra fan e avversari del papa.
Il titolo della recensione, “Ma Francesco è cattolico?” richiama quello di Newsweek “Is the Pope catholic?”, a cui Bergoglio diede una provocatoria risposta durante un viaggio aereo, chiedendo ai giornalisti se per convincerli avesse dovuto recitare il Credo. A questa idea di Dio unico ma non cattolico si rifà in modo evidente tutta la pastorale bergogliana, insistentemente, quasi monopolisticamente improntata alla misericordia, alla solidarietà, all’accoglienza verso i più poveri (Francesco, non per caso) ma soprattutto verso gli immigrati, in buona parte non cattolici e destinatari della gran parte degli interventi papali più noti. Persino il giorno recentemente dedicato ai nuovi martiri, pochi giorni dopo l’ennesima strage contro i cristiani copti, il Papa ha citato come esempio di vittima da lui incontrata un musulmano, ancorché marito di una cristiana. Che Bergoglio non si ponga neppure il dubbio dell’inopportunità di certe dichiarazioni è un indice della determinazione che lo anima, come pure lo sono i suoi continui attacchi e rimproveri contro il clero, dei quali ha parlato di recente un altro equilibrato vaticanista, Filippo di Giacomo.
Non c’è più morale, non c’è più religione e forse non c’è nemmeno più fede. Sarebbe curioso chiedere ai cattolici se davvero credano che il papa venga eletto non con una semplice e opinabile elezione, bensì per ispirazione dello Spirito Santo. Oppure se credano all’esistenza del limbo, alla verginità di Maria post partum, all’Immacolata concezione (sulla quale sarebbe anche interessante indagare quanti sanno veramente cosa sia). Sorge il dubbio che le uniche verità di fede ancora tali per il cattolico riguardino l’esistenza di un Gesù vero uomo e vero Dio, morto e risorto per salvare l’umanità, e una vita eterna (forse non in senso corporeo, come pure dovrebbe essere). Sarebbe poi indicativo sondare la reazione se i cattolici venissero a sapere che tali verità sono state codificate e assunte dai seguaci di Gesù a partire da diversi decenni dalla sua predicazione e dopo diatribe molto accese, quale quella con cui Paolo impose a Pietro la sua versione.
Per i cattolici la possibile estinzione della Chiesa potrebbe tutto sommato essere un segno positivo, in senso apocalittico, uno di quelli che caratterizzeranno gli “ultimi giorni” dopo i quali pochi eletti passeranno per la “porta stretta” della salvezza. Essa dovrebbe però preoccupare la società civile e laica sempre più secolarizzata e relativista, quella che nella sua foga di cancellare qualunque simbolo religioso se l’è presa da ultimo con le uova di Pasqua, senza capire che il cattolicesimo e il cristianesimo sono la base ineliminabile di ciò che intendiamo come civiltà e che noi difendiamo contro la barbarie incarnata, tra gli altri, dall’integralismo islamico.
In chiusura una considerazione autobiografica. Queste considerazioni seguono una casuale visita in una chiesa di Ariccia completamente vuota e che, forse per la vicinanza al cosiddetto “ponte dei suicidi”, ispirava un senso di lugubre desolazione: nella sacrestia, però, si sentiva un vociare di bambini che stavano giocando. Nel cristianesimo la speranza non è solo una virtù teologale, è un indirizzo di vita ben preciso. Quasi una condanna.