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Come ho spiegato a una collega cinese il groviglio politico sulla legge elettorale

mani pulite, legge elettorale

Una giornalista cinese che conosco da un po’ di tempo e ad un certo punto mi ha scambiato per un indovino, fidandosi troppo della mia esperienza, mi ha chiesto prima come finirà l’intricata vicenda della legge elettorale in gestazione alla Camera e poi di spiegargliela un po’ più chiaramente dei giornali che usa leggere.

Ebbene, mi sono sentito letteralmente perduto. Come si fa non dico a indovinare il finale, ma a spiegare quello che sta accadendo in Parlamento dopo che la Corte Costituzionale è intervenuta in tre anni su ben due leggi elettorali incautamente arrivate, a mio modestissimo avviso, sul suo tavolo operatorio? E restituendole entrambe amputate, ma col certificato di agibilità.

È come se fosse stato rilasciato un certificato di abitabilità ad un appartamento dove non si sa se manchi più il bagno o la cucina, più l’impianto elettrico o le porte d’ingresso, e quindi di uscita.

Le due leggi in vigore per l’elezione una del Senato e l’altra della Camera non sono tra loro compatibili. Con un eufemismo dovuto alla sua buona educazione sia istituzionale sia personale – istituzionale per un presidente della Repubblica non si può mettere a polemizzare con l’organo di garanzia per eccellenza voluto dalla Costituzione, personale per i rapporti di colleganza, e anche di amicizia, che il presidente ha con molti dei giudici in carica nel Palazzo della Consulta, essendo stato per un po’ di tempo uno di loro – il buon Sergio Mattarella ha chiamato disomogeneizzazione l’incompatibilità fra le due leggi. Per cui chiede tanto continuamente quanto inutilmente di “omogeneizzare”.

Già con l’uso di queste immagini capirete bene quanta difficoltà abbia avuto a farmi capire dalla collega cinese, i cui occhi da mandorla tendevano a prendere la forma dell’uovo. Nè sono tornati a mandorla quando ho spiegato – per rendere più semplice possibile la rappresentazione del problema – che lasciando le due leggi come sono alle prossime elezioni uno stesso partito con gli stessi voti, all’incirca, rischia di entrare alla Camera ma non al Senato. E magari di avere alla Camera, per le maggioranze o combinazioni di governo, un ruolo decisivo, ma solo lì a Montecitorio, mentre il governo per nascere e vivere deve disporre della fiducia di entrami i rami del Parlamento. Niente, gli occhi della collega continuavano a spalancarsi.

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Pino Pisicchio, deputato pugliese ex democristiano di lungo corso, presidente del gruppo misto alla Camera, è considerato giustamente tra i più esperti in materia elettorale, per cui l’ho bloccato l’altro giorno a Montecitorio. E gli ho detto che non lo avrei mollato sino a quando non fosse riuscito a farmi capire che cosa stessero combinando in commissione alla Camera. Dove si respira ora anche aria di vigneto, parlandosi di un “Rosatellum” al posto dell’”Italicum”, del “Porcellum”, del “Consultellum”, e via latinizzando. Sarebbe un Rosatellum da Rosato, capogruppo del Pd a Montecitorio, come il compianto Vanni Sartori battezzò Mattarellum la legge elettorale di cui fu relatore nel 1993 un Sergio Mattarella che tutto poteva allora prevedere fuorché di diventare dopo 22 anni capo dello Stato.

Ebbene, amici da troppo tempo, Pisicchio mi ha chiesto perché volessi perdere tempo anch’io, come lo stanno perdendo loro a Montecitorio. Mi ha spiegato che le vere trattative fra i partiti, e al loro interno, perché non ce n’è nessuno che abbia davvero una posizione unica, si svolgeranno al Senato, dove i numeri della maggioranza di governo sono notoriamente ballerini e tutti sanno che nessuna legge partorita a Montecitorio potrà passare di lì.

Poiché sarà appunto al Senato il passaggio decisivo, se i partiti maggiori, a cominciare dal Pd, avessero avuto davvero la voglia di risolvere il problema sollevato dal presidente della Repubblica e metterlo in condizione di gestire una eventuale crisi di governo esercitando tutti i suoi poteri, compreso quello di mandare gli italiani alle urne anticipatamente, avrebbero dovuto cominciare l’esame della riforma o riformina elettorale direttamente al Senato, piuttosto che a Montecitorio. Evidentemente tanta voglia di risolvere presto il problema non c’è. O si ha paura di risolverlo proprio per non anticipare le elezioni.

Il povero Paolo Gentiloni, che personalmente ho visto un po’ ingobbito da quando è stato catapultato dalla Farnesina a Palazzo Chigi, può dirigere tutte le riunioni del Consiglio dei Ministri che vuole, girare come una trottola per il mondo intero, volare in Cina e tornare attraverso la Russia per incontrare anche Putin, e presiedere a fine mese anche il famoso e impegnativo G7 a Taormina, ma è condannato a cercare di schivare continuamente la crisi, sempre in agguato dietro l’angolo.

In Cina il conte ha dovuto spiegare ai giornalisti al seguito, e a quelli locali alquanto perplessi, come e perché non esiste per lui il problema della sua sottosegretaria Maria Elena Boschi per via della rivelazione, fatta dall’ex direttore del Corriere della Sera in un libro sui “poteri forti, o quasi”, di un incontro avuto due anni fa come ministra delle Riforme e dei rapporti col Parlamento per chiedere, sia pure inutilmente, all’allora amministratore delegato di Unicredit di acquistare la Banca Etruria vice presieduta dal padre e salvarla dal dissesto.

Sul Mar Nero, prima e dopo avere incontrato Putin, da cui magari si sarà sentito chiedere notizie più del ringalluzzito amico Silvio Berlusconi che di Renzi, il conte ha dovuto chiamare i suoi uffici a Roma per regolarsi su come rispondere alle domande dei soliti giornalisti sull’ultima intercettazione sfuggita, diciamo così, ai soliti uffici giudiziari e abbattutasi sul dibattito e sugli umori politici. Parlo naturalmente della telefonata del 2 marzo scorso fra i Renzi, padre e figlio, a proposito delle indagini sulla Consip. Che hanno già fatto rischiare la sfiducia cosiddetta individuale al ministro dello Sport, Luca Lotti, renziano come la Boschi.

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I danni di una campagna elettorale così lunga e tossica erano facilmente prevedibili dopo la bocciatura del referendum costituzionale, quando Renzi giustamente ritenne che la legislatura fosse finita con quella sconfitta e con le sue dimissioni da presidente del Consiglio. Ma fu preso per un pazzo o un provocatore un po’ da tutti, saliti in cattedra per avvertire che i mercati – i famosi e temuti mercati finanziari – si sarebbero scatenati contro i titoli dell’ingente debito pubblico italiano avvertendo puzza di troppa instabilità. Come se questa in corso fosse stabilità, e non appunto una campagna elettorale destabilizzante.

Fra i tanti contrari alle elezioni anticipate si distinse il mio amico Stefano Folli, editorialista di Repubblica, che sembra la pazienza e saggezza in persona. Ebbene, anche lui ha dovuto appena riconoscere che “un Paese normale andrebbe al voto senza ulteriori indugi”. Cioè, sarebbe già andato. Ma un Paese normale, appunto. Che non è l’Italia.

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