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Elezioni in Gran Bretagna dal dopoguerra a oggi. Prima puntata

Winston Churchill

Il 5 luglio 1945, a meno di due mesi dal VE Day – il giorno della vittoria degli Alleati sul nazismo – il Regno Unito tornava alle urne. Per la prima volta dal 1935 i britannici potevano recarsi al ballot box dopo il decennio del governo di unità nazionale che aveva traghettato il Paese verso la sua “ora più felice”, quella della resistenza all’Operazione Leone Marino, il piano di invasione dell’isola da parte di Hitler.

Grande favorito alle elezioni era, naturalmente, Winston Churchill, il leader conservatore che aveva sostituito l’appeaser Neville Chamberlain conducendo il paese alla vittoria. Churchill era stato salutato dalla folla festante a Buckingham Palace il 10 maggio, quando si affacciò dal balcone con la Famiglia Reale per annunciare che la Gran Bretagna era libera e lo sarebbe stata da quel momento in poi.

Quanto successe nel segreto dei ballot box, sconvolse la politica inglese e determinò i paradigmi della politica britannica ed europea per gli anni a venire. Al termine della conta dei voti, il 26 luglio, il popolo britannico, stremato dalle “lacrime, dal sangue e dal duro lavoro” promesse da Churchill per sconfiggere Hitler, votò in massa per il partito Laburista, guidato da Clement Attlee, vice di Churchill negli anni della guerra.

A convincere gli inglesi a voltare le spalle a Churchill, l’uomo che ancora oggi incarna ed epitomizza lo spirito di un paese che non si arrende, fu la promessa di una Nuova Gerusalemme in terra, un nuovo sistema politico e sociale che avrebbe tutelato i sudditi di Sua Maestà, “dalla culla alla tomba”. Il progetto, che avrebbe incardinato il modello di welfare state in Europa fino alla fine degli anni Settanta, prese il nome di Rapporto Beveridge, dal nome dell’economista e del sociologo oxfordiano William Beveridge, che lo aveva progettato nell’ambito di una radicale riforma dei servizi sociali nella democrazia liberale più antica d’occidente. In campagna elettorale i laburisti si appropriarono delle idee di Beveridge – che aveva lavorato fianco a fianco con la Società Fabiana e i coniugi Sidney e Beatrice Webb – e promisero un sistema universale di assicurazioni sociali, dalla sanità alle pensioni, che avrebbe permesso a una popolazione stremata dai razionamenti e dalle macerie della guerra, una vita nuovamente felice, senza preoccupazioni, e con un lavoro garantito.

Per la verità, l’abitudine a vedere Churchill a capo del governo, aveva fatto sì che nell’elettorato si era fatta strada l’idea che, aldilà del partito che avrebbe ottenuto la maggioranza alla Camera dei Comuni, sarebbe stato comunque lo stesso leader conservatore ad andare a Buckingham Palace a ricevere l’incarico di formare il nuovo governo. Attlee non era certo un personaggio carismatico, e anche all’interno dei laburisti c’era chi avrebbe preferito vedere coronato premier Herbert Morrison, il leader laburista londinese responsabile durante la guerra del sistema di difesa civile che limitò al massimo le perdite umane nella capitale.

Il Manifesto laburista aveva un titolo eloquente: let us face the future, affrontiamo il futuro. Tra gli oltre 20 milioni di britannici che votarono, i laburisti fecero il pieno, ricevendo quasi 12 milioni di voti contro gli 8 del vecchio leader. Il labour ottenne 393 seggi, e aveva 145 parlamentari in più dell’opposizione conservatrice e dei liberali di Archibald Sinclair. Anche se Churchill aveva messo in guardia gli inglesi dal pericolo del bolscevismo, era comunque difficile pensare di vedere Lenin in Attlee; i timori adombrati dal leader Tory per la creazione di uno stato che avrebbe “assomigliato a quello prefigurato dalla Gestapo nella Germania nazista”, si ritorse contro di lui. Il popolo gli voltò clamorosamente le spalle.

Tuttavia non si trattò del canto del cigno per Churchill. Alle elezioni del 1951 dopo che i conservatori abbracciarono il kenynesismo che li avrebbe accompagnati nella “politica del consenso” fino agli anni del thatcherismo, gli elettori rimisero in sella l’uomo a cui, più di ogni altro, i britannici devono la loro libertà.

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