In Europa il genere biografico conosce una apprezzabile fioritura nei decenni terminali del Novecento, complici la disgregazione dell’impero sovietico, la fine del mondo bipolare, la crisi delle ideologie di massa, i travagli della transizione postcomunista. Crollano le antiche certezze sulla dimensione teleologica della storia, già messe a dura prova dalla Shoah e dal rischio di una guerra nucleare. Emergono atteggiamenti più cauti e disincantati, forme meno ambiziose e meno totalizzanti di comprensione degli eventi storici. Il genere biografico acquista così una rinnovata vitalità.
Questo mutamento di clima si rispecchia in modo esemplare nel percorso intellettuale di Ian Kershaw, uno dei maggiori studiosi del Terzo Reich. Lo storico inglese, di formazione strutturalista, approda alla stesura di una biografia di Hitler (uscita nel 1998) spinto dall’insopprimibile bisogno – come confessa nella prefazione – di “approfondire la riflessione sull’uomo che fu fulcro indispensabile e centro ispiratore” del regime nazista (Hitler, 2 voll., Bompiani, 2003). Servendosi del concetto weberiano di carisma per spiegare sia l’autorità assoluta del dittatore sia il gregarismo del popolo tedesco, il professore dell’università di Sheffield tratteggia un profilo del Führer che -come egli stesso ammette- si risolve in definitiva nella “storia del suo potere”.
A questo punto, la domanda è quella di sempre: perché il potere ha consenso? Di primo acchito, la risposta di Carl Schmitt sembra la più plausibile: “In certi casi per fiducia, in altri per paura, a volte per speranza, a volte per disperazione” (Dialogo sul potere, Adelphi, 2012). Secondo il giurista di Plettenberg gli uomini hanno bisogno di protezione, e cercano questa protezione nel potere. Il legame tra protezione e obbedienza è dunque per lui l’unica spiegazione del potere. Chi non ha il potere di proteggere qualcuno non ha nemmeno il diritto di esigerne l’obbedienza. Viceversa, “chi cerca protezione e la ottiene non ha il diritto di negare la propria obbedienza”. Il potere ha una logica interna che va al di là di chi lo esercita: “E’ più forte di ogni volontà di potenza, più forte di ogni bontà umana e, per fortuna, di ogni umana cattiveria”. Insomma, non ha identità, ma produce identità, quella per il cui riconoscimento servo e padrone si affrontano nella hegeliana Fenomenologia dello spirito.
Quando Schmitt concepisce il suo pamphlet (1954), il potere veniva identificato da Martin Heiddeger con la “gabbia della tecnica”, con la capacità di ridurre gli uomini a “piccoli funzionari” dell’apparato globale. Tuttavia, il pensiero di Schmitt si discosta da quello del filosofo di Essere e tempo, di cui era buon amico. Il titolo esteso del Dialogo recita, infatti, sull’accesso a coloro che lo detengono. Il problema del potere è cioè quello di come sia possibile entrarvi in contatto. Partendo dall’affermazione che “ogni potere diretto è sottoposto immediatamente a influenze indirette”, la sua conclusione è che “non esiste alcun potere senza questa anticamera, senza questo corridoio” (nel 1890 Bismarck si dimise quando l’imperatore Guglielmo rifiutò il preventivo assenso del cancelliere sui suoi ospiti a corte).
L’essenza del potere viene insomma solo adombrata, ma non enunciata esplicitamente. La condizione dell’uomo schimittiano di fronte al potere somiglia a quella del campagnolo della novella di Franz Kafka Vor dem Gesetz (pubblicata nel 1915 e poi inserita nel romanzo Il Processo), che attende invano di poter varcare la porta della legge (Gesetz), perché un custode – da cui viene soggiogato – glielo impedisce. Analogamente, per il teorico dello “stato d’eccezione” davanti alla porta del potere c’è sempre “un’antichambre”, a cui prima bisogna accedere per poterla varcare. Ciò significa che del potere non vediamo mai il volto, ma soltanto la sua immagine riflessa nello specchio della storia, della lotta per la sua conquista. D’altronde, l’idea che il potere vero stia “altrove”, che sia invisibile e remoto ancorché influentissimo, ancora oggi è largamente diffusa.
Cos’è, allora, il potere? Voltaire diceva che consiste “nel far agire gli altri a mio grado”. Per Max Weber esiste ogni qualvolta ho la possibilità di affermare la mia volontà contro la resistenza altrui. Secondo Bertrand de Jouvenel, “comandare ed essere ubbiditi: senza di questo non c’è potere, con questo non è necessario nessun altro attributo perché esso ci sia…La cosa senza la quale non può essere: quella essenza è il comando” (La sovranità, Giuffrè, 1971). Sono solo alcuni nomi del lunghissimo elenco di studiosi che considerano la violenza come la più flagrante manifestazione del potere. Alessandro Passerin d’Entrèves, invece, lo definisce come un tipo di “violenza più mite”, come “forza istituzionalizzata” (La dottrina dello Stato, Giappichelli, 2009). Dal canto suo, Hannah Arendt attribuiva la paternità delle concezioni imperniate sul “comando dell’uomo sull’uomo” al concetto di potere assoluto, coevo alla nascita dello Stato-nazione e teorizzato da Jean Bodin e Thomas Hobbes. “Oggi dovremmo aggiungere -annotava profeticamente nel 1969 – la più recente e forse più formidabile forma di dominio: la burocrazia o il dominio di un intricato sistema di uffici in cui nessuno, né uno né i migliori, né i pochi né i molti, può essere ritenuto responsabile, e che potrebbe […] essere definito come il dominio da parte di Nessuno” (Sulla violenza, Guanda, 1996). Riassumendo: il potere fa senz’altro parte dell’essenza di tutti i governi, ma la violenza no. La violenza è per natura strumentale, mentre il potere è “un fine in sé”. È come la pace: un assoluto (anche se i periodi di guerra sono quasi sempre durati di più dei periodi di pace).