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Il viaggio di Trump in Medio Oriente e le incognite del Russiagate

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Le tappe del viaggio diplomatico di Trump in Medio Oriente ed Europa sembrano rispecchiare l’immagine di un presidente molto vicino ai tradizionali “alleati” regionali: Israele e Arabia Saudita. Una tale superficiale impressione sarebbe tuttavia sbagliata, e vedremo il perché.

Intanto le tappe del viaggio: l’inquilino della Casa Bianca sorvolerà l’Atlantico per recarsi in primo luogo in Arabia Saudita, poi il suo jet sorvolerà i cieli mediterranei, prima in Israele, poi a Roma e Bruxelles (vertice Nato del 25 maggio), e infine al G7 di Taormina in Sicilia. Quest’ultima sarà una grande vetrina per le relazioni italo-americane e per la proiezione congiunta dei due Paesi in un’area che né Francia né Germania intendono coltivare oltre lo stretto necessario ed emergenziale.

I SAUDITI GIOCANO PESANTE
Detto questo, è tutta da verificare la natura dei rapporti di forza mediorientali in cui si colloca il viaggio americano.
In primo luogo, vi è stata certamente una sorta di “fuga in avanti” dei sauditi nella loro relazione con la Russia. Quattro giorni fa Ryhad e Mosca hanno deciso di proseguire la riduzione della produzione di petrolio a livello mondiale. I comuni interessi a mantenere alto il prezzo del petrolio certo non bastano a spiegare certe inattese solidarietà. Inattese soprattutto per chi, lasciandosi fuorviare dalla logica binaria dell’amico-nemico, vedeva in Mosca il patron dell’Iran nel confronto con un’Arabia Saudita puntellata da Washington. La realtà è più sfumata. In primo luogo, Teheran non è Paese da farsi mettere “sotto tutela”. Lo stesso dicasi per l’Arabia Saudita, ma con un caveat in più. La dinastia, per i suoi progetti di sviluppo economico, ha bisogno di aprirsi al capitale finanziario mondiale in misura maggiore che nel passato, e il provincialismo wahabita rischia di essere una camicia di Nesso in questo senso. Volere esportare petrolio e Corano, aspettandosi che le frontiere restino chiuse agli influssi esterni, è velleitario oltre che, alla lunga, dannoso.

ISRAELE CROCE E DELIZIA
In Israele Trump arriva più forte di quello che si possa pensare. La campagna mediatica pre-elettorale lo metteva nella posizione di alfiere di Israele, come era stato Mitt Romney nel 2012. Sono proprio queste credenziali a dargli ora le carte per chiedere, a Tel Aviv, maggiore cooperazione su più scenari. Inoltre si tratta pur sempre di un alleato con mille virgolette. Disposto a concedere pochissimo e spesso attratto dalla prospettiva di una Russia più presente nell’area.

IRAQ E SIRIA SUL TAVOLO
Al centro dell’attuale bilanciere mediorientale c’è la Siria, e dietro e ancor di più di essa l’Iraq, in disgregazione dal 2013-2014. Israele ha un vecchissimo conto aperto con Baghdad, che dal 1948 anima tutti i “fronti radicali” antisionisti. Le ideologie non c’entrano, ma conta il fatto che Israele presidi il terminale mediterraneo del greggio irakeno. Ora sulla disgregazione dell’Irak Washington deve calcolare bene le sue carte. Un eccesso di “federalizzazione” (ovvero di indipendenza del nord curdo) rafforzerebbe la Turchia; ma Erdogan cosa può dare in cambio? Washington gradirebbe da Ankara una maggiore cooperazione NATO e l’integrazione nella UE, ma qui spetta a Bruxelles decidere.

NATO, ARABI E RUSSIAGATE
E così si arriva al vertice NATO del 25 maggio nella capitale belga. A quel punto sarà chiaro quanto l’impegno globale antiterrorismo assunto a Lisbona nel 2010 sarà parte del raccordo euro-americano. In Iraq la Nato ha investito molto negli ultimi due anni. Nel 2015 ha approvato un pacchetto di capacity building, espressione dietro cui si intravvede l’investimento politico-militare in influenza sulla nazione ospite. In questo caso, in alternativa alla Russia, che in un passato recente ha strappato importanti accordi militari a Baghdad. Per il momento nessuna capitale mediorientale, tantomeno Ryhad, può offrire a Trump quello che nel 2011-2012 diedero gli sceicchi del Golfo in termini di impegno in Libia e Siria. La concorrenza turca e, soprattutto, il ritorno della Russia al Grande Gioco mediorientale nel 2013 ne scompigliarono i piani. Non può farlo nemmeno Mosca, come è chiaro dalla crisi del Russiagate.

LA SPADA DI DAMOCLE
E’ possibile che il centro politico-strategico di Washington sia in attesa degli eventi, e di questo viaggio, per capire quanto in fretta Trump sta “imparando il mestiere” . Una linea moderata, classica e conservatrice secondo il canovaccio kissingeriano comporterebbe quanto segue. Da una parte, contrattazione con Arabia Saudita ed Israele di un minore attivismo regionale, nelle cui pieghe finisce per inserirsi Mosca. Dall’altra, maggiore disponibilità alla leadership europea, tramite la Nato, in Medio Oriente, soprattutto ora che la Francia ha ripreso la sua porzione di responsabilità globale. Per ottenere tali risultati tuttavia bisogna capire quanto l’impulsivo neopresidente sia in grado di trattare con i suoi interlocutori in Medio Oriente, dove l’arte della sottigliezza richiede ben altra tempra di quel machismo tanto apprezzato dall’affollata platea “trumpian-putinista”.

I LIMITI DELLA NATO ARABA
In questo contesto l’avvallo USA ad una Nato araba secondo le intenzioni (peraltro confuse e limitate dalle disponibilità finanziarie) dei sauditi, sarebbe una mossa avventata in senso “revisionista”, ovvero destabilizzante. Punirebbe oltre il segno le ambizioni “fuori area” di Francia ed Europa, consegnerebbe a Ryhad margini di manovra notevoli senza contropartite certe; sancirebbe un’egemonia sugli sceicchi del Golfo che questi certo non apprezzerebbero; e non è inoltre detto che le armi per questo progetto, alla fine, non arriverebbero più dal fiorente mercato russo che dagli USA stessi.
Infine, la prova militare data finora dalla coalizione a guida saudita è stata negativa (Yemen).


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