È vecchio, malato e forse neppure più pericoloso come un tempo. Pertanto, al pari di ogni detenuto, anche lui ha “il diritto a morire dignitosamente”. Lo ha stabilito la prima sezione penale della Corte di Cassazione, invitando il tribunale di sorveglianza di Bologna a riesaminare la pratica. Ma il “lui” in questione non è un vecchietto qualunque, magari dimenticato dai parenti in uno dei tanti penitenziari della Penisola. L’uomo per il quale potrebbero presto aprirsi le porte del carcere si chiama Totò Riina. Basta il nome.
Per aiutare gli immemori a capire di chi si parla, del ruolo che ha esercitato e della fama che s’è conquistato tra i complici, ricordiamone un po’ di soprannomi: “Capo dei Capi, “la belva”, “il Padrino” (quello vero, non il Marlon Brando del film di Coppola), essendo la sua biografia costellata di crimini e di ergastoli. Ben sedici condanne a vita è il primato di delitti accumulati dal boss di Cosa Nostra. Che ha finora passato ventiquattro anni in galera, anche in isolamento -come la legge prevede-, trattato con tutte le regole previste dall’ordinamento.
Certo, nel frattempo Riina ha compiuto ottantasei anni. Ma non è colpa dei morti ammazzati per mafia se i compleanni del condannato si festeggiano tra le sbarre, anziché a casa tra i suoi familiari. Certo, il carcere deve tendere non solo alla rieducazione dei reclusi, ma anche a preservarne dignitosamente l’umanità. Umanità, peraltro, che si fatica a cogliere nell’illustre detenuto, al solo pensiero degli attentati orribili in cui morirono Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino (ma la drammatica lista di sangue è assai più lunga). Comunque, l’esistenza dignitosa del detenuto è rispettata dalle guardie carcerarie che l’hanno in custodia. Dai medici che intervengono in caso di necessità. Dagli avvocati e familiari che lo visitano. Dalla stampa, pronta a rivelare eventuali violenze subìte, se fossero mai esistite.
Non risulta che al Capo dei Capi sia stato abolito uno solo dei molti diritti riconosciuti anche a uno come lui, dall’accertata e gravissima attività criminale alle spalle. Attività dalla quale il boss dei boss non sembra essersi dissociato né pentito: mai ha collaborato con lo Stato.
Ma non confondiamo le carte, anzi, le cartelle cliniche. Una cosa è curarlo e trattarlo con quell’umanità che a troppe vittime della mafia non è stata riservata. Altra sarebbe scarcerarlo: un insulto all’Italia e a chi è caduto per difenderla e per sempre onorarla.
(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)