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Per un rilancio dell’Italia puntiamo a una nuova politica industriale

Baretta, populismo, giovani

Esiste uno scarto tra le domande crescenti e mutanti che i cittadini, le famiglie, le imprese pongono ai decisori, incalzati come sono, dalle emergenze che la quotidianità propone loro e le difficoltà istituzionali, finanziarie e politiche a dare loro risposte puntuali, compiute ed esaurienti. È in questo scarto che si alimenta la pressante delegittimazione che vivono i cittadini nei confronti della politica. Ci sono responsabilità oggettive e luoghi comuni; colpe e strumentalizzazioni.

Prendiamo, ad esempio, l’attuale situazione economica. Ci sono fattori oggettivi e soggettivi che pesano sul giudizio che ognuno di noi ha della fase economico-finanziaria italiana.

Su un piano oggettivo, gli indicatori economici, sia quelli riportati nel Def dal governo sia quelli di istituzioni esterne (Istat, Fmi, Bce, ecc.), confermano che l’Italia è fuori dalla crisi. La crescita è lenta, eccessivamente lenta, ma c’è! La crescita del Pil è costantemente col segno più (troppo poco, lo ripeto), la produzione industriale (dato di febbraio) cresce quasi del 2% su base annua e nell’artigianato di più perché registra la quattordicesima rilevazione positiva consecutiva, con un recupero dell’11,4% sui minimi del 2013; fa più fatica il commercio, e questa è la principale ragione che induce il governo a scegliere di non aumentare l’Iva, prendendo, nel Def, l’impegno, rilevante come sappiamo, di disinnescare, nella prossima legge di bilancio, le clausole di salvaguardia; ancorché, sapendo che la priorità di ridurre il Cuneo fiscale ha, anch’essa, un’importanza strategica per la competitività delle imprese.

Ma, il punto che mi interessa, qui, rilevare, in rapporto al ragionamento precedente, è che, nonostante questo, la sia pur “fragile” ripresa economica non è percepita dalle famiglie, dalle imprese, soprattutto le più piccole. La gravità della crisi che abbiamo vissuto, gli squilibri finanziari, la resistenza al cambiamento, le condizioni economiche e sociali di partenza, impediscono, ai più, di percepire, sul piano soggettivo, i segnali di questa ripresa. La sensazione, dal lato dei cittadini, è che si sia fatto poco, o, al meglio, che i risultati, di quanto è stato fatto in questi anni, siano pur concreti, ma gli effetti arriveranno, se va bene, in un’altra stagione.

Non sfugge a nessuno che questo pone rilevanti problemi da un punto di vista politico. Se manca, infatti, la percezione diffusa e generalizzata che la rotta è stata invertita; che, pur nelle evidenti difficoltà, siamo indirizzati sulla via della guarigione; se, insomma, non si chiude la distanza, lo scarto sensibile tra aspettative personali e condizioni concrete, si è di fronte a una crisi di fiducia che ha un impatto rilevante sulle opinioni, anche politiche, delle persone e sulle scelte del governo e degli operatori economico-finanziari. La fiducia, come dimostrano i più autorevoli studi economici, ma, come ben sa, ciascuno di noi, nella sua quotidiana esperienza, è una cosa seria. Non è solo un sentimento, ma è un fattore economico che incide sulle scelte degli investitori, che è in grado di supportare, rallentare o addirittura deprimere i segnali di ripresa che arrivano dalle statistiche nazionali e internazionali.

Ciò crea un cortocircuito in cui si sovrappongono la scarsa propensione agli investimenti, l’accumulazione delle risorse economiche, più in patrimoni immobiliari e in rendite a discapito degli investimenti produttivi, del lavoro e della redistribuzione.

È possibile cambiare questo stato di cose? Come possiamo rispondere a questo quesito, senza illudere che sia tutto risolto, perché non è così e, anzi, c’è molto da fare, ma, anche, senza deprimerci, abbandonando definitivamente le teorie del declino perché non è proprio il caso, o affidandoci al solo elenco delle magagne, che pure vanno rese esplicite e combattute.

Mi concentro su cosa possiamo fare di più, noi, al nostro interno.

Innanzitutto definire un coraggioso disegno di quella che, anche se può sembrare una terminologia desueta, chiamerei ancora oggi “politica industriale”. Una scelta ampia, una visione d’impresa, sarebbe più proprio dire, che faccia leva sulle nostre forze, sulle nostre caratteristiche e sulle straordinarie opportunità italiane.

Che Paese siamo? Siamo il secondo Paese manifatturiero d’Europa, dopo la Germania e dopo la crisi. Guai a dimenticarlo e lo siamo grazie a una struttura industriale fatta prevalentemente di piccolissime, di piccole e di medie imprese, capaci di stare nei mercati internazionali a discapito di un dibattito ideologico, finalmente superato, sulla dimensione. Non perché non sia importante crescere (le imprese non hanno una vocazione al nanismo, se possono crescono!). Ma, perché si è dimostrato che è più importante concentrarsi sull’innovazione e sulla qualità. Certo, l’impresa piccola ha bisogno di strumenti associativi più efficienti, di disponibilità di credito più snella, di semplificazione fiscale maggiore di quella attuale. Gli incentivi alla formazione di reti di imprese, il patent box, gli aiuti alle start-up sono solo alcuni dei veicoli che abbiamo messo in campo, oltre a quelli della riduzione del carico fiscale. La conferma della nostra vocazione industriale e il sostegno alla nostra struttura produttiva deve essere la prima delle nostre strategie di crescita.

Ma, siamo, anche, il primo Paese al mondo per patrimonio artistico e con risorse naturali straordinarie e, come, da vecchio industrialista quale sono, mi capita spesso di ripetere: i monumenti e il bel tempo non sono delocalizzabili. Sicché dobbiamo esaltare la nostra vocazione culturale e turistica. La scelta di estendere il bonus energetico, al 70% e più, anche agli alberghi (oltre che ai condomini) va in questa direzione.

Infine, siamo collocati in una invidiabile posizione geografica, che ci fa essere un vera e propria piattaforma nel Mediterraneo, tornato, nel bene e nel male, a essere crocevia del mondo e, dunque, abbiamo una naturale, quanto obbligata, vocazione logistica.

Cosa unisce, o deve unire, queste peculiarità tra loro? Il biglietto da visita dell’Italia nel mondo: un’idea assolutamente vincente, applicabile ai bulloni come all’agroalimentare, all’accoglienza come ai servizi alle persone: il Made in Italy! E cos’è il Made in Italy se non qualità e bellezza! Se non capacità di esportare prodotti e di accogliere persone. Ecco la prima grande risposta che dobbiamo dare al nostro futuro.

 


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