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A Roma bisogna abolire il sindaco, non cambiarlo

Raggi

Virginia Raggi, Ignazio Marino, e prima ancora Gianni Alemanno: per Roma sembra impossibile trovare un sindaco all’altezza delle sfide della capitale. Ma se il problema fosse invece strutturale, più che di cercare un nuovo sindaco bisognerebbe cercare un sistema più efficace. Per esempio abolendo quello che – nonostante il titolo di Roma Capitale e la Città Metropolitana – resta nei fatti il comune di Roma: una struttura inadeguata a gestire problemi complessi, di fronte ai quali riesce solo a chiedere l’intervento del governo. In altre parole, a scaricare sul bilancio dello Stato le difficoltà del comune, non solo in termini di spesa ma soprattutto di strategia, pianificazione e gestione, senza però consentire a chi paga l’orchestra (il governo) di scegliere la musica (saldamente in mano al sindaco).

Che l’atteggiamento della classe politica romana sia questo, senza particolari differenze tra gli eletti nuovi, vecchi o eterni, emerge dalla cronaca.

Il caso più recente è l’emergenza acqua, creata da fenomeni naturali ma acuita dalle pessime condizioni della rete idrica. La malandata rete è di Acea, società del comune, e il sindaco di Roma presiede anche l’autorità di bacino. Dovendo decidere sullo svuotamento del lago di Bracciano, che di Roma è la principale riserva idrica, per scongiurare il razionamento dell’acqua in città Virginia Raggi si è però rivolta al governo, che ha autorizzato i prelievi fino a settembre – quando, si spera, pioverà. Decisione forse inevitabile, ma allora perché non prenderla in proprio? Poche settimane prima, in un’audizione alla Camera sulle periferie (10 luglio), la sindaca aveva chiesto al governo 1,8 miliardi di fondi straordinari e persino l’intervento dell’Esercito per affrontare non solo le crisi temporanee quali gli incendi ma soprattutto quelli strutturali come periferie e rifiuti.

Sia ben chiaro: a chiedere l’intervento dei genitori (adottivi) non è solo il M5S dei “ragazzi fantastici e competenti”, secondo la famosa definizione di Beppe Grillo. A metà ottobre 2016 era stata l’opposizione, che a Roma è guidata dal Pd, a invocare l’intervento del governo per mettere una qualche pezza alla crisi dell’Atac, l’azienda di trasporto pubblico che ha più buchi della rete idrica. Che il problema sia tutto comunale è chiarissimo: la posta in gioco non è solo lo spostamento quotidiano di alcune centinaia di migliaia di romani e turisti ma la sopravvivenza del comune, che mette all’attivo i 500 milioni di euro che ha prestato ad Atac, sul cui bilancio 2015 (l’ultimo disponibile) campeggia in copertina la definizione di “società con socio unico soggetta alla direzione e coordinamento di Roma Capitale”. Come avrebbero detto gli antichi abitanti dell’Urbe: simul stabunt, simul cadent

Andando indietro nel tempo, è agevole constatare come sui trasporti il Comune abbia passato la palla ad altri in epoca politicamente remota. Il finanziamento della Metro C è regolato da una convenzione del 2002 (sindaco Walter Veltroni) che addossa allo Stato il 70% del costo. Per la tratta extraurbana, Roma Capitale (la pomposa denominazione introdotta sotto Alemanno) sostiene solo il 18% della spesa, perché l’ultimo 12% viene dalla regione Lazio. In compenso le scelte politiche e i ritardi che fanno lievitare i costi sono saldamente in mano al comune.

E ancora, il debito pregresso, il vero macigno che schiaccia qualsiasi possibilità di dinamismo di qualsivoglia sindaco (o sindaca), è stato accumulato dal comune ma a ripianarlo contribuisce in modo significativo il bilancio dello Stato. Per i dettagli si veda l’audizione del commissario al debito Silvia Scozzese dell’aprile 2016.

Gli esempi sarebbero infiniti, ma il senso è unico. Di fronte all’incapacità – questa sì, strutturale – del comune di incidere sui problemi di Roma, perché non abolire il sindaco e attribuirne in via permanente le funzioni a un commissario di nomina governativa? La durata certa del mandato, la stabilità garantita dall’assenza di un consiglio comunale, l’eliminazione della competizione tra i partiti o delle loro correnti, persino la possibilità di individuare personalità di comprovata esperienza in ristrutturazioni e taglio di costi garantirebbero – anche nell’ipotesi più modesta – risultati migliori di quelli dell’ultimo decennio.

Avvicinare la fonte delle risorse e l’ente che le spende responsabilizzerebbe entrambi i soggetti, impedendo lo scaricabarile o la grandiosità a carico altrui, così come l’omogeneità politica con il governo eviterebbe il conflitto di interessi oggi palese. Alle prossime elezioni l’insuccesso della giunta Raggi sarà un pessimo viatico per il M5S, che non a caso avrebbe voluto anticiparle per evitare che la portata del disastro di Roma smentisse per sempre l’idea di soluzioni semplici per problemi complessi. Così, tra una dimissione e l’altra, a Roma si tira a campare.

La nomina del sindaco 4.0 potrebbe essere demandata al Consiglio dei Ministri, su proposta del ministro dell’Interno, scegliendolo tra i prefetti e gli alti funzionari dello Stato. Magari persino tra ammiragli e generali, forse gli unici in Italia che in questi anni abbiano saputo ridurre le proprie organizzazioni migliorando il prodotto – sia pure obtorto collo – senza un solo giorno di sciopero.

Si potrebbe lamentare la scarsa democraticità del commissariamento permanente. In realtà, il drastico crollo dei votanti alle elezioni amministrative dimostra che il romano medio ha smesso da tempo d’interessarsi a chi sia sindaco: nel 2016 Virginia Raggi ha raccolto 453.806 voti, meno della metà dei 926.932 di Walter Veltroni nel 2006 e un buon terzo in meno dei 675.111 di Gianni Alemanno (2008). Nel 2013 prese più voti persino il vituperato Ignazio Marino (512.720).

Né si deve dimenticare il potere di blocco che i dipendenti del comune esercitano in fase elettorale: si tratta di circa 50.000, comprese le municipalizzate, che con i familiari più prossimi rappresentano un bacino di circa mezzo milione di voti, forse non a caso pari a quanto raccolto da Raggi un anno fa. È chiaro che per questa categoria di persone la scelta tra l’interesse personale e quello collettivo rappresenta un conflitto di difficile soluzione.

Si potrebbe anche obiettare che la soluzione ricalcherebbe quella adottata da Mussolini quando istituì il Governatorato di Roma (rd 1949 del 28 ottobre 1925, data scelta per la non casuale coincidenza con il terzo annuale della Marcia su Roma). In questa era post-ideologica, con l’ampliamento della sfera amministrativa a scapito di quella politica (basti pensare al proliferare di Agenzie e ai Regolamenti europei, vincolanti senza promanare da alcun organo elettivo), il retrogusto dirigista non dovrebbe essere però un problema.

C’è persino il rischio che, svincolato dalla necessità di inseguire il consenso per le prossime elezioni (municipali, regionali siciliane o nazionali: fate voi), il futuro governatore di Roma riesca a combinare qualcosa. Se non altro, si inizierebbe a risparmiare già la spesa per elezioni che da almeno dieci anni non producono i risultati che Roma non solo merita ma aspetta disperatamente.

L’unico problema concreto è che il nome di Commissario Permanente è poco attraente sulle slide che accompagneranno l’annuncio. Speriamo che il governo sappia trovare, oltre a un bravo commissario, anche un esperto di marketing e comunicazione.

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