Non cedono. Anzi rilanciano. Italia, Francia, Spagna e Germania sono determinate a portare dal Digital Summit in corso a Tallinn un impegno preciso dell’Unione sulla web tax europea e anche la presidenza estone vorrebbe fare di questo semestre un successo annunciando entro la fine dell’anno la proposta comunitaria. È stato il nostro presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni a ribadire la necessità di una maggiore integrazione economica nell’Unione, anche di natura fiscale, contro l’elusione perpetrata in tutti questi anni dai giganti della rete rispetto alle piccole e medie aziende europee che pagano fino all’ultimo centesimo di tasse per le loro transazioni.
LA POSIZIONE ITALIANA
“Noi non possiamo accettare l’idea che il diritto di stabilimento delle imprese per quanto riguarda i giganti del web e le piattaforme sia concepito come nell’era delle imprese tradizionali in cui lo stabilimento significava che pagavi le tasse nel posto deve avevi la tua fabbrica” – ha spiegato il nostro premier – “Oggi ci sono alcune di queste grandi piattaforme che ci semplificano la vita e a cui non vogliamo rinunciare per niente al mondo, e che hanno volumi d’affari strepitosi nei nostri Paesi, dove però magari hanno poche unità di dipendenti e certamente non hanno ciminiere con cui presentarsi” ha continuato il premier. Per questo sulla web tax “c’è una proposta della Commissione Ue su cui dobbiamo andare avanti” e se necessario anche “nel senso delle cooperazioni rafforzate” tra i Paesi Ue interessati ad applicarla.
IRLANDA E MALTA GUIDANO IL FRONTE DEL NO
La posizione italiana non deve sorprendere. Come ha anticipato Formiche.net, il nostro Paese ha presentato un documento in vista del vertice di Tallinn dove si incoraggia ad un compromesso che potrebbe mettere tutti d’accordo, ovvero quello di far pagare l’Iva ai colossi del web laddove vendono i loro beni e servizi. L’Italia non è sola nella battaglia e oltre a Germania, Francia e Spagna in queste settimane si sono uniti altri sei paesi disposti a marciare uniti per ottenere un risultato tangibile: Austria, Bulgaria, Grecia, Portogallo, Slovenia e Romania. Eppure a recalcitrare sono i piccoli paesi come Irlanda, Cipro, Malta, Lussemburgo che per Google e Facebook sono diventati dei veri e propri paradisi fiscali. Per loro infatti la web tax non pone rimedio alle questioni vere, di concorrenza, di privacy, di prelievo fiscale sugli utili. Al contrario riduce la competitività per le imprese europee e fa aumentare il costo dei prodotti per i consumatori ed in più non indirizza gli operatori a governare il loro futuro digitale.
I NUMERI DELL’ELUSIONE FISCALE
Per rendersi conto di quanto ammonta l’elusione fiscale vi sono diversi rapporti che mettono all’indice le web company. Il Parlamento Europeo ha valutato che i paesi membri tra il 2013 e il 2015 hanno perso gettito per 5,4 miliardi di euro solo per i mancati versamenti da parte di Google e Facebook. Come ha ricordato Milena Gabanelli per il Corriere della Sera: “In Italia Google è stabile al primo posto con 29.653.000 utenti unici, vale a dire il 96% della popolazione che naviga in Internet, per un tempo medio mensile di 6 ore e 44 minuti. Nel mondo dei social media, Facebook ha l’86% del mercato, con 26.474.000 utenti unici che lo utilizzano a persona per 24 ore e 22 minuti al mese. L’orientamento sembra però essere quello di individuare una tassa fissa sul fatturato, cioè sul dato più misterioso”. Da qui la Commissione ha avanzato tre proposte per cercare di arrivare ad un documento di sintesi: una tassa sul fatturato, una ritenuta sulle transazioni digitali e un’imposta sui messaggi pubblicitari. Il principio su cui si muove la Commissione Europea è sempre lo stesso: le società dovrebbero pagare i tributi dove svolgono la loro attività economica effettiva. La soluzione al problema della tassazione dei giganti del web andrebbe trovata a livello globale, assieme all’Ocse, oppure approvando in fretta la CCCTB (Common Consolidated Corporate Tax Base, su cui si lavora da più di 11 anni), la direttiva che punta a creare una base imponibile comune per le imprese, e in un secondo momento ad armonizzare l’aliquota. In mancanza di questo i singoli paesi potrebbe fare una loro web tax sul proprio territorio ma è ovvio che se il problema non viene affrontato globalmente l’esito è alquanto fallimentare.
COSA VERRÁ FUORI DALL’EUROVISION?
“Alcuni possono pensare che sia una sorta di concorso canoro dell’Eurovision, e forse lo è, ma sono personalmente convinto che ne potremo fare buon uso se cantiamo all’unisono”. Ha usato questa immagine il presidente dell’Ue Donald Tusk per raffigurare le molte idee sul tavolo alla cena dei leader europei a Tallinn. Perché nessuno nasconde la difficoltà nel trovare una soluzione condivisa. Anche perché le regole della fiscalità internazionale fanno riferimento al concetto di ‘stabile organizzazione’. Si tratta di una regola per certi aspetti banale: una società – multinazionale o media impresa – che opera in un altro stato rispetto a quello di origine, traendo quindi profitti, paga imposte in questo Paese solo se ha al suo interno una stabile organizzazione, ovvero una sede fissa di affari. Questo meccanismo ha funzionato per tutto il secolo scorso nella sua semplicità e nella sua efficacia, non solo in Europa. È andata un po’ in crisi negli ultimi anni perché i modelli di business di queste multinazionali riescono o a fare a meno del tutto della filiale in uno Stato e a fare lo stesso profitti, oppure ad avere ugualmente una piccola filiale negli altri Paesi dove fanno affari, stando attenti a non superare determinati limiti di fatturato in modo da eludere il fisco. Adesso per cambiare i Trattati serve in campo fiscale l’unanimità. Ma siccome questa è difficile da raggiungere ecco l’idea italiana e non solo della cooperazione rafforzata. Lo si è già fatto in passato con la tassa sulle transazioni finanziarie – la cosiddetta Tobin tax – non ottenendo però dei grandi risultati. Lo si è pronti a fare adesso anche per la tassa sul web. A costo di dividere l’Unione e di aprire un contenzioso con quei colossi della Rete che fino ad ora hanno giocato proprio sul mercato fiscale molto frammentario e per nulla unito dell’Europa.