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Che cosa (non) ha detto Massimo D’Alema su Bettino Craxi

Massimo D'Alema

Una dimostrazione del livello al quale è scaduta anche sul piano umano l’informazione in Italia si è avuta con le reazioni all’intervista di Massimo D’Alema pubblicata mercoledì scorso dal Corriere della Sera. E raccolta da Aldo Cazzullo con una diligenza elogiata dall’ex presidente del Consiglio in una letterina di critica solo al titolo che la riassumeva politicamente col rifiuto assoluto di un’alleanza elettorale col Pd guidato da Matteo Renzi.

Dell’intervista, al solito urticante, hanno fatto notizia solo i giudizi duri, e scontatissimi, su Renzi. Di cui D’Alema ha rifiutato con sdegno un paragone tentato o proposto, come preferite, dall’intervistatore con Bettino Craxi. Nel quale del resto Renzi ha sempre rifiutato di riconoscersi, condizionato evidentemente dalla damnatio memoriae decretata contro il leader socialista, come un novello Nerone, da una vecchia sinistra dalla quale pure il segretario del Pd ama differenziarsi, a dir poco.

Mi sembra di vederlo con le sue smorfie, oltre che di leggerlo, D’Alema a colloquio con Cazzullo mentre contrappone a un Renzi dilettante, pasticcione e di destra neppure tanto camuffata un Craxi statista e indubbiamente di sinistra, nonostante il suo ostentato anticomunismo. E pazienza se Claudio Martelli ha poi rinfacciato all’ex presidente del Consiglio i pesanti giudizi espressi quando definiva Craxi, nel 1992, “una tragedia” per la sinistra. Del resto -potrebbe obiettargli D’Alema – non sono mai mancati alla sinistra, come dimostrano le divisioni attuali, esponenti e partiti specializzati nelle autoreti, cioè nella propria rovina.

Più di tutto ciò che D’Alema pensa e dice nel dibattito che si svolge a sinistra, e che si è ritrovato nell’intervista al Corriere della Sera, mi hanno impressionato quelle poche parole pronunciate per spiegare finalmente in che cosa fosse consistito l’aiuto ch’egli si è più volte vantato di avere fornito a Craxi negli anni della disgrazia. E che potrebbe riservare -deduco dal suo ragionamento- anche a Renzi se il giovanotto di Rignano si decidesse a togliere il disturbo, senza necessariamente morire, per carità. Come invece sognano nella redazione del Fatto Quotidiano, dove hanno deciso di pubblicare senza alcun imbarazzo, ben in vista in prima pagina, una vignetta di Mannelli in cui il segretario del Pd è caricato sul treno elettorale che sta allestendo, e che partirà il 17 ottobre, come una salma da mummificare dopo il viaggio ed esporre in un mausoleo, alla maniera di Lenin. Torno a questo punto ad immaginare le smorfie di D’Alema di fronte a un simile paragone, vista l’impossibilità di classificare a destra pure il protagonista della rivoluzione comunista di cento anni fa.

Quand’era premier – gli ha chiesto Cazzullo, non credo, in verità, così per caso – tentò di fare rientrare Craxi in Italia? “Si, per curarsi”, ha risposto D’Alema. Che ha spiegato, confermando voci diffusesi già nelle ultime settimane di vita del leader socialista, ad Hammamet, ma mai confermate in modo così esplicito e clamoroso: “Negoziai con la Procura di Milano perché non lo arrestassero. Non fu possibile”.

La brevità della risposta sembra presa in prestito da Tacito. E toglie ogni velo ad una pagina che ritengo tra le più inquietanti dell’amministrazione della giustizia – rigorosamente al minuscolo – in Italia.

Il fatto che D’Alema si sia deciso a parlarne in modo così chiaro lo trovo lodevole, sia pure tardivo, quando sono passati ormai più di 17 anni dai fatti, il protagonista giudiziario di quella vicenda sta in pensione, alcuni dei suoi collaboratori morti e altri magari in grado di potersi ora difendere dicendo di non essersi accorti di nulla. E quando comunque credo che manchino anche gli strumenti per promuovere qualche azione utile a bollare l’accaduto con sanzioni.

D’altronde, è forse anche a quel passaggio evocato da D’Alema, e a lui noto, che si riferì l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel decimo anniversario della morte di Craxi, lamentando in una lettera alla vedova, fra le proteste dei soliti giustizialisti, la “durezza senza uguali” praticata dalla magistratura contro il leader socialista nelle indagini, nei processi e nei dopo-processi sul fenomeno generalizzato del finanziamento illegale dei partiti, e più in generale della politica.

D’Alema mi consentirà tuttavia di contestargli un verbo da lui usato per spiegare l’intervento sicuramente inusuale, per un presidente del Consiglio, su una Procura della Repubblica a favore del rientro in Italia, senza essere arrestato o piantonato in un ospedale, di un condannato in via definitiva, sprezzantemente definito dagli avversari “latitante”. Eppure, oltre ad essere arcinoto il suo recapito, Craxi si era allontanato dall’Italia in modo regolare, quando era provvisto del passaporto, come ha cercato inutilmente di dimostrare in sede giudiziaria il suo difensore Nicolò Amato. Gli ordini di arresto arrivarono dopo. E le autorità tunisine si avvalsero delle loro prerogative rifiutando le richieste di consegnare il non comune ospite a chi lo reclamava.

Il verbo, a mio avviso, improprio usato da D’Alema con Cazzullo è “curarsi”. In realtà, come Francesco Cossiga mi confidò di avere riferito proprio a D’Alema al ritorno dalla sua ultima visita a Craxi, dopo che l’amico era stato operato nell’ospedale militare di Tunisi per un tumore renale, il leader socialista era ormai un malato terminale. Che non a caso si era accomiatato da lui, nel salotto di casa ad Hammamet, avvertendolo che non si sarebbero potuti più incontrare di nuovo. Craxi morì il 19 gennaio del 2000 per arresto cardiaco, debilitato dal tumore e dal diabete, che gli aveva procurato piaghe liquidate in un processo dall’allora pubblico ministero Antonio Di Pietro come “un foruncolone”. E chissà quanto tempo si dovrà ancora aspettare perché l’ex magistrato se ne penta, e se ne scusi, visto che ha cominciato a riconoscere qualche errore.

Più che “curarsi”, dopo tutti i tentativi falliti di tornare in Italia da uomo libero per esservi operato, al mio povero amico Bettino non restava altro che poter tornare in Italia per morirvi senza ulteriori umiliazioni. Ma neppure questo gli “fu possibile”, per ripetere le parole – questa volta appropriate – usate da D’Alema in una intervista che meritava ben altra accoglienza e ben altre reazioni, finita invece nel solito, ormai insopportabile pastone, come si chiamava una volta, il pezzo quotidiano della cronaca politica.

Peccato. È stata persa un’altra occasione dal giornalismo per riscattarsi da decenni di sostanziale disarmo morale di fronte a certi spettacoli che gridano semplicemente vendetta. Quel “non fu possibile” di D’Alema fa venire i brividi, pur a tanto tempo di distanza dall’accaduto, o forse proprio per il troppo tempo passato da allora. E per il troppo onore conferito a chi non lo meritava.

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