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Il boicottaggio del Qatar è riuscito o è fallito?

“Ciò che conta è che abbiamo fermato qualsiasi azione militare”. Le parole dell’emiro del Kuwait, Shaykh Sabah Al-Ahmad Al-Jaber Al-Sabah, pronunciate in conferenza stampa alla Casa Bianca il 7 settembre, restituiscono tutta la gravità della crisi politica apertasi il 5 giugno fra Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Egitto e il Qatar. Perché l’emiro kuwaitiano, primo e vero mediatore, non ha alcun interesse a dipingere, anche in retrospettiva, una realtà peggiore di quella esistente.

Dunque, sauditi ed emiratini hanno davvero contemplato, nei primi giorni della rottura, l’opzione militare nei confronti di Doha, accusata di “terrorismo”. Una rivelazione – piuttosto, una conferma – che suscita forti inquietudini, poiché mette in luce la disinvoltura politica con la quale Riad e Abu Dhabi sono oggi pronte all’uso dello strumento militare in Medio Oriente (come già in Yemen), segnando un cambio di paradigma rispetto alla loro tradizionale politica estera.

NIENTE ISOLAMENTO POLITICO 

Da un punto di vista politico, l’azione di boicottaggio di sauditi ed emiratini ai danni del Qatar è fallita: oggi Doha non è una capitale politicamente isolata. L’emiro Tamin bin Hamad Al-Thani ha appena terminato un tour diplomatico che lo ha portato in Turchia, dall’alleato Recep Tayyip Erdoğan (che in Qatar ha appena aperto una base militare), a Berlino da Angela Merkel e infine a Parigi da Emmanuel Macron. Inoltre, questa crisi ha rafforzato l’allineamento strategico fra Qatar, Turchia e Iran: Doha re-invierà l’ambasciatore a Teheran, ritirato nel gennaio 2016, e il ministro degli Esteri iraniano ha appena visitato il Qatar.

Anche il ministro degli esteri russo si è recato a Doha (facendo poi tappa anche in Kuwait ed Emirati). Mosca, forte di ottimi rapporti economico-militari con gli emiratini, vuole assumere il ruolo del facilitatore nella crisi che ha spaccato il Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg). E potrebbe avere molte più carte da giocare degli Stati Uniti: Donald Trump si è da subito schierato, pubblicamente, con i sauditi, anche se l’Amministrazione ha poi cercato di ‘correggere il tiro’, evidenziando l’indispensabilità della base militare di Al-Udeid.

SOVRANITÀ VS. CONFORMISMO

Il Qatar sta vincendo anche la battaglia della comunicazione politica al di fuori del Golfo. Premesso che la politica regionale dell’emirato degli Al-Thani è stata, negli ultimi anni, più che discutibile per spregiudicatezza (finanziamenti verso gruppi militanti) e opportunismo (dialogare con tutti per guadagnare prestigio regionale), la strumentalità delle accuse rivolte da Riad e Abu Dhabi è apparsa fin da subito chiara: le due capitali hanno voluto colpire la rivendicata autonomia della politica estera qatarina, specie con Iran e Fratelli Musulmani.

La questione del finanziamento privato a gruppi/milizie salafite, anche jihadiste, ha coinvolto tutte le monarchie del Golfo (eccetto l’Oman). Così, mentre sauditi ed emiratini chiedono al Qatar di “conformarsi” alle loro richieste, con una retorica che cela la tendenza sempre più nazionalista nonché militarista delle due monarchie, Doha insiste sul rispetto della sovranità, facendo leva sul nascente orgoglio qatarino: argomenti di dibattito nuovi per la sponda araba del Golfo.

OPPORTUNITÀ E BEFFE FINANZIARIE E COMMERCIALI 

Il lato economico del boicottaggio anti-Doha è sicuramente quello più riuscito. Nei primi due mesi di embargo da parte dei vicini, il Qatar ha speso il 23% del Pil per sostenere l’economia interna e ha dovuto ridurre le quote di partecipazione in alcuni gruppi importanti (vedi Tiffany). Doha deve risparmiare: a Gaza, Riad e Abu Dhabi provano a riempire il vuoto geopolitico dei qatarini, triangolando con Egitto e Israele. Hamas ha appena tolto i riferimenti alla Fratellanza dallo statuto e gli emiratini promettono 15 milioni di dollari al mese di aiuti per la Striscia.

Però, Fincantieri fornirà corvette alla Marina qatarina e i francesi di Total raddoppieranno la produzione di gas. E poi c’è la beffa militare: il Qatar riceverà gli F-15 statunitensi, mentre il maxi-accordo di fornitura militare ai sauditi, sbandierato da Trump a maggio, non è ancora stato notificato al Congresso e sarebbe inferiore a quanto dichiarato. Il boicottaggio del Qatar è anche un boomerang: data la crisi irrisolta, il Golfo potrebbe diventare meno attraente agli occhi degli investitori internazionali, mentre il processo di diversificazione economica saudita (Vision 2030) richiede capitali stranieri nel settore privato.

Gli investimenti intra-Ccg sono bloccati e quell’identità del Golfo (khaleeji), faticosamente forgiata, viene messa alla prova da rancori personali e propaganda incrociata. Il progetto di costruzione della ferrovia regionale è stato rinviato al 2021 e il Bahrein non costruirà il “ponte dell’amicizia” che lo avrebbe collegato al Qatar, dando impulso all’economia non-oil (turismo e commercio, anche in direzione Riyadh). Ma Doha affina le contromosse. Port Hamad è stato appena inaugurato: un’opera che adesso assume grande valenza strategica, permettendo all’emirato di by-passare il re-export di Dubai (rotta chiusa), importando direttamente le merci da Oman e Asia. Nel Golfo, la partita è ancora lunga.

(Articolo tratto dal sito AffarInternazionali)

 



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