C’è stato un tempo, tra 2014 e 2016, in cui il califfato reggeva le sorti di un territorio ampio come la Gran Bretagna e aveva potere di vita e morte su almeno dieci milioni di sudditi. L’Isis, diventata Stato islamico con il discorso di auto-investitura a califfo del capo supremo Abu-Bakr al-Baghdadi, nel luglio del 2014, aveva ottenuto ciò che la formazione jihadista di cui era stata parte integrante, al Qa’ida, poteva solo sognare: la statualità. Il governo di un territorio con ministeri e dipartimenti, riscossione delle tasse, erogazione di servizi, amministrazione draconiana della giustizia secondo il dettato della shari’a, gestione della poderosa macchina militare e del reclutamento dei temibili foreign fighters, almeno 40 mila da tutto il mondo, fino alla pianificazione, affidata ad uno speciale dipartimento, di attentati terroristici in Occidente.
L’attività amministrativa del califfato ruotava intorno ad una città siriana, Raqqa, sottratta nel gennaio 2014 al controllo dei ribelli che l’avevano a loro volta tolta dalle grinfie dell’odiato esercito del presidente Bashar al-Assad. Collocata in una posizione strategica, a metà strada tra Aleppo e Mosul, non lontana dal confine con la Turchia da dove affluivano i volontari che si univano alla causa e dove scorrevano, nelle due direzione, i flussi di beni e merci – incluso l’oro nero, estratto dai pozzi di Assad e rivenduto agli amici-nemici del Paese vicino – indispensabili per alimentare l’economia dello Stato nascente del puro islam. Da Raqqa, elevata a capitale del neonato Stato dei combattenti duri e puri, era scattata l’offensiva dei cento giorni dell’estate 2014, quando con una travolgente avanzata da est le bandiere nere sbaragliarono le raccogliticce armate del premier iracheno sciita Nouri al-Maliki, annettendosi Mosul, la seconda città d’Iraq, e spingendosi sino ai confini del Governo regionale del Kurdistan, salvatosi dall’orda solo grazie alla tempestiva reazione dei valorosi peshmerga. A rimanere impigliati nella morsa dei tagliagole, nel Sinjar, migliaia di yazidi che furono passati – maschi di tutte le età – per le armi, con le donne rese schiave al servizio degli appetiti sessuali dei mujaheddin.
Era l’alba di una nuova era per il Medio Oriente, i cui confini, disegnati con un tratto di penna nel 1916 dall’inglese M. Sykes e dal francese F. Georges-Picot, emissari delle future potenze mandatarie, venivano travolti per la seconda volta in un secolo, dopo l’abortito tentativo di Saddam Hussein, nel 1990, di fagocitare il Kuwait, che scatenò la prima Guerra del Golfo e sancì la vittoria fulminante della potenza unipolare degli Stati Uniti, con un intervento benedetto dalle risoluzioni del Palazzo di Vetro. Una frontiera veniva spazzata via dalle onde sismiche di una primavera araba abortita, in Siria, e delle fratture di un paese, l’Iraq, incapace di tenere uniti i pezzi del suo mosaico etnico-confessionale squassato dalla guerra preventiva di George W. Bush e dei suoi temerari neocon.
Di fronte al collasso di un’intera regione, e alle nequizie sanguinarie dei nuovi barbari, il comandante in capo più riluttante della storia degli Stati Uniti, Barack Obama, cercò di salvare le apparenze sguinzagliando la sua aviazione e tessendo la trama di una coalizione che al suo apogeo tenne unite sessanta potenze dagli intenti più disparati quanto all’obiettivo da perseguire, unite solo dalla volontà di non mettere in campo i fatidici boots on the ground, le truppe di terra che sole avrebbero potuto respingere l’impeto rivoluzionario delle squadracce di al-Baghdadi. La dottrina Obama, che avrebbe dovuto farsi carico di assorbire il ciclone Isis, puntò tutte le sue carte sull’abbinamento tra air power a stelle e strisce e il sudore delle braccia locali, da addestrare e armare e soprattutto motivare. Una strategia che investì della massima responsabilità due diversi eserciti. A est, nelle sabbie irachene, l’esercito regolare di Baghdad, le unità d’élite della golden division, la polizia federale, i peshmerga e le Unità di mobilitazione popolare, armata di volontari sciiti che risposero alla chiamata dell’ayatollah al-Sistani, garante dell’unità del Paese più diviso del Medio Oriente, e obbedivano agli ordini del generale Soleimani, capo della forza al-Qods, l’unità dei Pasdaran incaricata di gestire le operazioni militari esterne della Repubblica islamica. A ovest, in Siria, il compito di ricacciare indietro l’Is ricadde sulle spalle dei curdi dell’Ypg, l’unica forza disponibile e già mobilitata, rafforzata da tre anni di guerra civile e ben disposta a conquistare la simpatia del mondo di cui avvantaggiarsi quando, finita l’ordalia del bellium omnium contra omnes, sarebbe arrivato il momento di ottenere il premio agognato da un secolo, l’indipendenza.
Ci sono voluti tre anni, uno sforzo inenarrabile e migliaia di morti per far rientrare il genio islamista nella bottiglia. Uno dopo l’altro, i bastioni del califfato nero sono caduti, inceneriti dalle bombe americane e assediati da coloro che Barack Obama aveva incaricato di sporcarsi le mani. A luglio, dopo una battaglia durissima durata nove mesi, la bandiera dell’Isis è stata ammainata a Mosul, la città dove sorge la moschea di al Nouri in cui al-Baghdadi proclamò il califfato, che i jihadisti preferirono distruggere piuttosto che consegnare ai riconquistatori. Ieri, quindi, è stato il turno di Raqqa, la capitale occidentale e centro nevralgico della macchina statale e terroristica, la città dove è stato architettato il piano per seminare la morte nel centro di Parigi il 13 novembre 2015, il giorno del Bataclan. I combattenti curdo-arabi delle Syrian Democratic Forces, alleanza tattica destinata a sfaldarsi quando i nodi del futuro della Siria verranno al pettine delle trattative per l’assetto da darsi a questo Stato prostrato, hanno avuto la meglio su poche centinaia di irriducibili jihadisti asserragliati nell’ospedale e nello stadio, in pieno centro, a pochi passi da quella rotonda in cui venivano crocifissi e decapitati i nemici e i peccatori.
Il califfato ora è solo una pallida ombra di ciò che rappresentava al suo culmine. I suoi effettivi sono stati decimati, i cittadini loro malgrado liberati dall’incubo. Rimangono poche ridotte nella valle dell’Eufrate, a cavallo del confine, insidiate dalle due coalizioni a guida americana e russa. Ma se l’annichilimento del progetto eversivo dell’Isis è cosa ormai certa, il futuro presenta ancora numerose e spinose incognite. Che fare, tanto per cominciare, dei reduci ancora vivi e delle loro famiglie, inclusi quei “leoncini” che sono nati sotto il segno dell’utopia islamista e sono cresciuti a pane e shari’a? E che faranno quelli che sono scampati alla morte e si sono rifugiati nel deserto? Che ne sarà, ora, dei territori liberati? Assad li reclama per sé, idem i curdi. Ai negoziati di Astana tra Russia, Iran e Turchia gli Stati Uniti non sono parte in causa: che farà Trump? Lascerà a Vladimir Putin e agli ayatollah lo scettro della Siria solo formalmente nelle mani di Assad?
Queste ed altre domande incombono sull’agenda delle grandi potenze. I prossimi mesi diranno se questo lembo di terra vedrà una parvenza di pace o se il Medio Oriente conoscerà un nuovo, l’ennesimo, ciclo di violenza e odio settario.