Almeno ad oggi tutti gli sforzi profusi da giganti mediatici come New York Times, Washington Post e Cnn, dal procuratore speciale Mueller, con le sue centinaia di collaboratori e fondi praticamente illimitati, e soprattutto le attività di sorveglianza disposte dall’amministrazione Obama prima e dopo il voto non hanno prodotto lo straccio di una prova sul Russiagate, sulla presunta collusione della campagna Trump con la Russia per truccare le elezioni presidenziali. Ma non vi preoccupate: c’è un altro Russiagate, con qualche elemento di concretezza in più, che sta emergendo, pur essendo stato insabbiato durante la campagna per le presidenziali, e di cui probabilmente il pubblico italiano non ha mai nemmeno sentito parlare. Un Russiagate che coinvolge direttamente i Clinton e l’amministrazione Obama.
Questa l’accusa: quando era segretario di Stato Hillary Clinton usò la sua carica per aiutare la Russia ad acquisire il controllo di un quinto delle riserve americane di uranio in cambio di milioni di dollari versati alla Clinton Foundation, la fondazione di famiglia. Boom! L’accusa è di quelle pesanti e coinvolge anche l’amministrazione Obama. Non è nuovissima. Fu il New York Times a parlarne per la prima volta nell’aprile del 2015, anticipando di pochi giorni l’uscita del libro di Peter Schweizer “Clinton Cash”, da cui attinse ampiamente. Poi, sulla vicenda calò il silenzio per tutta la durata della campagna per le presidenziali e anche dopo l’8 novembre 2016. Di pochi giorni fa le nuove rivelazioni di The Hill, non certo un “house organ” trumpiano… E il caso è finalmente arrivato all’attenzione della Commissione Giustizia del Senato Usa.
I fatti. Nel 2013, il colosso statale russo per l’energia atomica, la Rosatom, acquisisce il controllo della compagnia canadese Uranium One e, tramite essa, di un quinto delle riserve minerarie di uranio negli Stati Uniti per un valore di decine di miliardi di dollari. Ovviamente, essendo l’uranio un bene strategico, con evidenti implicazioni per la sicurezza nazionale, l’acquisizione ha avuto bisogno del via libera di una commissione governativa (la Commissione per gli investimenti esteri negli Stati Uniti), di cui fanno parte diverse agenzie Usa e naturalmente il Dipartimento di Stato, allora guidato da Hillary Clinton, e quello della Giustizia.
E guarda caso, proprio mentre i russi assumevano progressivamente, in tre diverse transazioni dal 2009 al 2013, il controllo di Uranium One, milioni di dollari (145 milioni, ha calcolato Newsweek) affluivano nelle casse della Clinton Foundation dai conti personali degli uomini che erano alla guida o importanti investitori di quella stessa compagnia canadese. Inoltre, nel giugno 2010, poco dopo l’annuncio da parte russa di voler acquisire una quota di maggioranza della compagnia, e poco prima che venisse concessa l’autorizzazione governativa (ottobre 2010), l’ex presidente Bill Clinton incassava in un solo giorno mezzo milione di dollari da una banca d’affari russa legata al Cremlino, la Renaissance Capital, forte sostenitrice di Rosatom, per un discorso pronunciato a Mosca.
Secondo le nuove rivelazioni di The Hill, ad aprile l’avvocato personale di Bill aveva interrogato il Dipartimento di Stato su un possibile conflitto di interessi chiedendo di fatto il permesso a tenere il discorso, e ottenendolo due giorni dopo. Ma soprattutto, circa un mese prima del suo viaggio in Russia l’ex presidente chiese al Dipartimento di Stato (guidato dalla moglie) il permesso a incontrare, tra gli altri, un alto dirigente di Rosatom – che proprio in quel periodo aveva bisogno del via libera dell’amministrazione Obama all’acquisizione di Uranium One e, tramite essa, di un quinto dell’uranio made in Usa. Si tratta di Arkady Dvorkovich, uno dei principali consiglieri dell’allora presidente russo Medvedev e dei più alti funzionari governativi nel board di Rosatom. Dvorkovich era solo uno dei 15 uomini d’affari russi in una lista dei possibili incontri di Bill Clinton durante la sua visita a Mosca. Lista contenuta in una email che uno dei suoi consiglieri della Clinton Foundation aveva spedito ai consiglieri senior della moglie chiedendo appunto il parere del Dipartimento di Stato. Alla fine pare che non vi fu alcun incontro, secondo quanto sostengono oggi i consiglieri di entrambi i Clinton. Ma Bill Clinton incontrò direttamente Vladimir Putin, allora primo ministro, nella sua residenza privata.
Le donazioni ai Clinton hanno giocato un qualche ruolo nel via libera della Commissione per gli investimenti esteri all’operazione Rosatom-Uranium One?
Ovviamente sarebbe un gravissimo crimine se Hillary Clinton avesse usato la propria carica pubblica (e che carica!) per favorire un governo straniero, quasi nemico, in cambio di denaro. Nella migliore delle ipotesi però siamo di fronte a un gigantesco conflitto di interessi. E in ogni caso si tratta di uno scandalo politico, che coinvolge non solo i Clinton ma anche l’amministrazione Obama. E che tocca quanto di più sensibile nelle prerogative di un governo: la sicurezza nazionale.
Stiamo parlando dell’autorizzazione a trasferire il controllo di un quinto delle capacità minerarie americane di uranio alla Russia, una potenza ostile, essendo Rosatom l’azienda di Stato russa per l’energia nucleare. Ma c’è di più o, per meglio dire, di peggio. Nei mesi del 2010 in cui stava per autorizzare l’operazione, l’amministrazione Obama era a conoscenza che la controllata americana di Rosatom, la Tenam, nella persona del suo direttore generale Vadim Mikerin, era coinvolta in una “lucrativa organizzazione di racket” (reati quali corruzione, estorsione, frode, riciclaggio), al preciso scopo di accrescere il business nucleare russo all’interno degli Stati Uniti, il tutto “con il consenso di funzionari di massimo livello” in Russia.
Grazie a un lobbista divenuto informatore, riporta The Hill, l’Fbi aveva raccolto prove sostanziali ed era stata in grado di comprendere e monitorare l’organizzazione criminale fin dall’inizio, dal 2009, ben prima della decisione della commissione governativa sull’acquisizione di Uranium One. Dal maggio 2010 poteva già provare lo schema e tre diverse estorsioni da parte di Mikerin. Ma soprattutto, sempre secondo The Hill, l’informatore aveva appreso da alcune conversazioni con lo stesso Mikerin e con altri che era in corso un tentativo da parte di funzionari dell’industria nucleare russa di ingraziarsi i Clinton. Secondo una testimonianza supportata da documenti citata da The Hill, questi funzionari avevano fatto arrivare milioni di dollari negli Stati Uniti destinati alla Clinton Foundation durante il periodo in cui Hillary Clinton era segretario di Stato e, dunque, sedeva anche nella commissione che di lì a poco avrebbe assunto una decisione così favorevole a Mosca.
Tuttavia, anziché avviare un procedimento penale già nel 2010, il Dipartimento di Giustizia continuò a indagare per quasi altri quattro anni, di fatto nascondendo al pubblico americano e al Congresso (nonché alla Commissione per gli investimenti esteri) ciò di cui era già a conoscenza, ovvero un piano corruttivo russo nel settore nucleare perpetrato su territorio americano proprio nel periodo in cui l’amministrazione Obama doveva prendere una decisione chiave per le ambizioni nucleari di Putin. È evidente che una tale rivelazione avrebbe fatto saltare l’operazione Rosatom-Uranium One. Ma è interessante dare uno sguardo ai nomi coinvolti. All’epoca dei fatti l’Attorney General, il ministro della giustizia, era Eric Holder, fedelissimo di Obama. Il capo dell’Fbi era Robert Mueller, oggi “special prosecutor” sul Russiagate, i presunti legami tra la campagna Trump e i russi. Nel 2013, a inchiesta ancora in corso, gli subentrò James Comey. Uno dei procuratori ad avere a che fare con il caso Mikerin fu Rod Rosenstein, che oggi da vice Attorney General, dopo che Sessions è stato costretto a ricusarsi, si occupa del Russiagate e ha deciso la nomina di Mueller a procuratore speciale.
Qualcuno potrebbe maliziosamente osservare che proprio coloro che allora giocarono un ruolo nel coprire, o quanto meno nell’impedire che emergessero le attività illecite russe nel settore nucleare americano connesse all’accordo per Uranium One, sono gli stessi che oggi stanno affannosamente cercando prove in grado di dimostrare la “connection” Trump-Cremlino.
Ma è importante anche ricordare il contesto politico internazionale all’epoca dei fatti. Nel 2009, nonostante l’occupazione russa di Abcasia e Ossezia del Sud e l’invasione della Georgia l’anno prima, il presidente Obama e il segretario di Stato Hillary Clinton ribadivano la volontà della nuova amministrazione di “resettare” le relazioni con Mosca. Di questo reset nelle relazioni tra i due Paesi sarebbe stata centrale una rinnovata cooperazione proprio nel campo dell’energia nucleare.
Dunque, a prescindere dal ruolo delle donazioni alla Fondazione Clinton, l’amministrazione Obama sembra aver deciso di chiudere un occhio, o meglio entrambi gli occhi sulle malefatte russe, e di approvare l’acquisizione di Uranium One per non compromettere il tentativo di reset, poi miseramente fallito, in cui sia Obama che la Clinton avevano investito così tanto capitale politico. Allo stesso modo in cui pur di non compromettere l’accordo sul nucleare iraniano, il presidente Obama avrebbe qualche anno dopo chiuso entrambi gli occhi davanti alle attività destabilizzanti di Teheran in Iraq e in Siria e sul programma di missili balistici, di fatto legittimandolo.
Solo nell’estate del 2014 il racket dei russi nel settore nucleare americano fu fermato e Mikerin arrestato insieme ai suoi complici. Qualche mese prima, nel marzo del 2014, la Russia aveva annesso la Crimea e Putin aveva avviato operazioni militari coperte a sostegno dei separatisti filorussi nelle regioni orientali dell’Ucraina. Insomma, la politica del reset era definitivamente fallita. Ma il caso Mikerin doveva essere comunque insabbiato. Il successo di un’indagine come questa – su un esteso e continuato racket da parte di agenti di una potenza straniera, addirittura la Russia, in un settore sensibile come il nucleare – viene di solito celebrato in pompa magna da Fbi e Dipartimento di Giustizia. Eppure, nel caso Mikerin tutto si concluse in sordina. Poche parole al momento degli arresti. Patteggiamento annunciato alla vigilia della festa del lavoro. La sentenza sotto Natale.
Inoltre, l’informatore – il lobbista che aveva denunciato all’Fbi il racket russo nel 2009 – avrebbe voluto raccontare al Congresso ciò che sapeva, ovvero ciò che Fbi e Dipartimento di Giustizia avrebbero potuto provare già nel 2010, prima che la Commissione per gli investimenti esteri approvasse l’acquisizione di Uranium One da parte di Rosatom, e ciò che aveva appreso degli sforzi russi per ingraziarsi i Clinton. Ma non gli fu permesso di parlare. L’Fbi lo aveva indotto a firmare un accordo di riservatezza e minacciato di perseguirlo.
Sarebbe stato uno scandalo enorme per l’amministrazione Obama, e un brutto colpo alle ambizioni presidenziali di Hillary Clinton, se proprio durante le aggressioni russe del 2014, o anche durante la campagna del 2016, l’attenzione dell’opinione pubblica fosse stata attirata sulla decisione del Dipartimento di Giustizia di non portare in tribunale, nei quattro anni precedenti, un caso di sicurezza nazionale che avrebbe impedito l’acquisizione da parte russa di importanti asset nucleari americani.