Le rivelazioni sull’influenza dei big della Silicon Valley nella vittoria alle presidenziali di Donald Trump non sono finite. Dopo la scoperta della manipolazione di Facebook, Twitter e Google da parte di agenti russi al fine di condizionare l’esito del voto tramite la diffusione di fake news e di messaggi propagandistici, ora emerge che le compagnie tecnologiche hanno avuto un ruolo più che mai attivo nella campagna elettorale di tutti i candidati, con propri esponenti incorporati nei team di Trump, del governatore Jeb Bush, dei senatori Bernie Sanders, Ted Cruz e Marco Rubio ma non di Hillary Clinton, che ha preferito ricorrere a risorse interne per gestire la comunicazione nelle piattaforme web. Scelta scellerata, quella dell’ex segretario di Stato, che ha contribuito alla sua disfatta e a portare The Donald dentro la Casa Bianca.
È quanto emerge da uno studio di imminente pubblicazione, citato ieri dal quotidiano Politico, che è stato realizzato da due docenti di comunicazione alle University della Carolina del Nord e dello Utah. Gli autori hanno intervistato una dozzina di esponenti di Facebook, Twitter e Google che hanno lavorato come “embedded” nelle campagne dei candidati alle presidenziali. Dai colloqui sono emersi dati sorprendenti. Lungi dal limitarsi a piazzare i propri prodotti, i membri delle tre compagnie hanno fornito veri e propri consigli strategici su come gestire la comunicazione a tutti i livelli, dalla scelta delle immagini più efficaci da far circolare sulle piattaforme al target e alla tempistica dei messaggi selezionati in funzione delle destinazioni toccate dai candidati nei loro viaggi lungo il territorio americano. “Facebook, Twitter e Google”, spiega la ricerca, “sono andati oltre la promozione dei propri servizi e il facilitare l’acquisto di pubblicità. Hanno invece “contribuito attivamente a dare forma alle campagne di comunicazione attraverso una collaborazione ravvicinata con gli staff politici” dei candidati.
Daniel Kreiss, uno dei docenti che ha condotto l’indagine, parla di “una forma di sussidio ai candidati politici da parte delle aziende tecnologiche”. Katie Harbath, capo del team elettorale di Facebook, lo descrive come “servizio clienti plus”. Ali-Jae Hanke, manager di Google che ha lavorato con le campagne dei candidati repubblicani, parla invece di “una funzione di consulenza”.
Sebbene precisino di aver messo a disposizione il proprio expertise a tutti i candidati, i rappresentanti di Facebook, Twitter e Google rivelano come sia stato Trump ad approfittarne maggiormente. Personale delle tre aziende si è stabilito a San Antonio, in Texas, vicino all’ufficio dello stratega digitale di Trump, Brad Parscale. Il quale, sebbene si sia rifiutato di collaborare con la ricerca delle università della Carolina del Nord e dello Utah, si era già sbottonato l’8 ottobre scorso alla trasmissione 60 Minutes. Al conduttore, Parscale disse di aver chiesto agli addetti delle aziende tech: “Voglio sapere tutto ciò che avreste detto alla campagna di Hillary più qualcos’altro. E voglio la vostra gente qui ad insegnarci come approfittarne”. Nu Waxler, consulente di Twitter, spiega in questi termini i risultati derivati dalla collaborazione: “Primo, hanno scoperto che stavano ricevendo consigli fondamentali. Secondo, è vantaggioso”.
Alla luce dei risultati, la scelta di Trump ha senz’altro pagato. E appare assurdo, od autolesionista, il comportamento della Clinton. Sul quale getta parzialmente luce la ricerca. Una fonte vicina alla campagna dell’ex first lady spiega che il suo team ha consapevolmente rinunciato all’opportunità rappresentata dalle collaborazione di Facebook, Twitter e Google. Secondo loro, non ci sarebbe stato un vero vantaggio ad avere addetti delle aziende tech incorporati nel proprio quartier generale di Brooklyn. Come rivela un addetto delle tre aziende, “Clinton ci vedeva più come venditori che come consulenti”.
Una valutazione errata dunque, o meglio, una sorta di hubris dettata da una mal riposta fiducia nelle capacità del proprio team di gestire la comunicazione nei social. Al contrario, i collaboratori di Trump non si sono fatti scrupoli nell’approfittare della consulenza strategica dei tre colossi del web. Una scommessa che ha pagato.
Molta acqua è passata sotto i ponti da quando Randy Zuckerberg, sorella del fondatore di Facebook, elemosinava udienza ai candidati delle primarie repubblicane del 2008. “Stavo implorando le persone di incontrarci”, ricorda Randy, citata da Politico. Era l’alba di quella che si sarebbe presto rivelata come una nuova era della comunicazione. La lunga stagione della comunicazione di massa volgeva al termine, e con essa tutto un insieme di rodate tecniche di marketing tarate sui media del tempo: televisione, radio, manifesti, e il sempiterno porta a porta che il candidato Barack Obama ha portato all’ennesima potenza. Nell’anno domini 2016, con la maggioranza degli americani dotati di profilo Facebook, le coordinate delle campagne elettorali sono cambiate irreversibilmente.
Una verità che non è sfuggita ai rampanti collaboratori di Donald Trump. Che, a differenza della Clinton, non si sono fatti sfuggire l’opportunità di beneficiare della consulenza strategica degli insider di Facebook, Twitter e Google per impostare la propria comunicazione. Intascando la vittoria. Con lo zampino di Zuckerberg.