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Chi spinge e chi intralcia la riforma fiscale reaganiana di Trump. Tutte le novità

Un piccolo spiraglio di luce per Donald Trump e il partito repubblicano dopo nove mesi di riforme osteggiate se non naufragate del tutto. Giovedì il Congresso ha approvato, con una risicata maggioranza di 216 voti a favore contro 212, un piano per il budget per l’anno fiscale del 2018 che permetterà ai repubblicani la prossima settimana di far passare senza l’aiuto dei democratici l’imponente riforma fiscale trumpiana su cui il GOP è al lavoro da gennaio. A meno che gli undici franchi tiratori repubblicani che hanno votato no a questa tornata non riescano a conquistare alla causa qualche altro collega. Mentre lo sguardo minaccioso di Paul Ryan, speaker repubblicano della Camera, spesso una spina nel fianco di Trump ma sostenitore entusiasta della riforma fiscale, si muoveva dal tabellone del voto segreto ai volti dei colleghi di partito per scovare i traditori, qualcuna delle defezioni è uscita allo scoperto. È il caso di un pezzo da 90 come Diane Black, a capo della commissione di Bilancio della Camera, e di repubblicani di peso come Thomas McArthur e il congressman del Michigan Justin Amash.

Persino teorici della dottrina anti-tax reganiana come Grover Norquist, presidente dell’Americans for Tax Reform, rimangono cauti ed evitano di esultare prima del traguardo. “La riforma fiscale di quest’anno è un ottimo inizio” si legge sul suo profilo twitter, “ma è fondamentale ricordare che ci saranno tagli alle tasse ogni anno dal momento che abbiamo un Congresso e un presidente repubblicani”. Il voto favorevole del Congresso alla risoluzione del Senato offre a Trump una boccata di ossigeno, dopo due cocenti voti contrari e ben 20 defezioni repubblicane. La battaglia per le tasse non può essere persa. Ne va della credibilità dell’amministrazione nei confronti dell’elettorato, tanto più mentre si avvicinano le elezioni di mid-term del 2018, dove storicamente la carta anti-tax conquista voti ai repubblicani.

I punti chiave della riforma sono stati annunciati già il 26 aprile da Gary Cohn, in una conferenza stampa in cui è stata consegnata ai giornalisti una lista di 12 punti. Alcuni dei cavalli di battaglia ricorrono in questi giorni nelle parole del presidente e del suo team. Come l’abbassamento della corporate tax dal 39% (la più alta al mondo) al 20% per evitare l’emorragia di imprese statunitensi che fuggono in paradisi fiscali esteri come quello irlandese. Poi la semplificazione normativa, riducendo gli scaglioni fiscali da sette a tre e rendendo più umano un codice fiscale unanimemente ritenuto illeggibile. Altri, come la Border Adjustment Tax (BAT), la tassa studiata per promuovere il BuyAmerican, sono stati abbandonati, anche per le non indifferenti pressioni dei colossi dell’automobilistico dell’area NAFTA, che non hanno alcuna intenzione di rinunciare ai pezzi di ricambio made in Mexico.

I democratici accusano la riforma di Trump di rendere la vita più facile ai suoi amici milionari, senza alcun beneficio per le classi di reddito più basse, eccetto un enorme buco nel deficit che, a loro dire, sarà pagato dai contribuenti meno abbienti in futuro. I repubblicani da parte loro, persino quelli che hanno messo i bastoni fra le ruote a Trump in passaggi chiave come il Muslim -ban, il Daca repeal o l’Obamacare repeal, vedono nella nuova riforma fiscale il ritorno di Reagan a Capitol Hill, e sanno che un taglio drastico delle imposte pagherà alle elezioni di marzo. Restano però alcuni impedimenti di fondo. Il fallimento dell’Obamacare repeal, che con 800 miliardi di tagli nei prossimi dieci anni avrebbe dovuto finanziare le riforme trumpiane, ha innescato un domino negativo che ha congelato i piani dell’amministrazione. Così Trump e Ryan dovranno trovare le coperture con un buco nel deficit da 1,5 triliardi di dollari per il prossimo decennio. Un rischio, tentano di rassicurare i leader repubblicani, che sarà azzerato dall’impatto che gli sgravi avranno sul consumo e la produzione, e dal ritorno in patria delle grandi multinazionali che darà una spinta all’occupazione.

La spiegazione non convince alcuni dei repubblicani, che sì hanno nel dna la riduzione delle tasse, ma guardano con altrettanto sospetto alle voragini nel deficit. Si promettono levate di scudi in particolare contro una polpetta avvelenata che sarebbe in preparazione con la Trump Tax reform. Trattasi di una modifica del popolarissimo programma 401k di reddito ante imposte con cui i cittadini americani risparmiano in vista della pensione. Non appena uscita l’indiscrezione, l’effetto boomerang è stato tale da costringere lunedì il presidente a correre ai ripari garantendo su twitter: “Non ci sarà alcuna modifica al vostro 401(k). È sempre stata un’agevolazione fiscale per la classe media che funziona, e rimarrà”. A fine mese, quando ci sarà la votazione finale, si capirà se i malumori repubblicani riusciranno a fermare la prima vera vittoria di Trump davanti agli elettori. C’è da scommettere che gli occhi di Paul Ryan saranno ancora una volta fissi sul tabellone del Congresso, in attesa di scovare nuovi franchi tiratori.

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