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Le vere mire della visita di Donald Trump in Asia

Cominciato domenica con la tappa in Giappone, il lungo tour asiatico di Donald Trump in Asia è un guanto di sfida alla Cina di Xi Jinping, che contende agli Usa il ruolo egemone in una regione centrale negli equilibri mondiali nonché in preda agli spasimi nucleari della Corea del Nord di Kim Jong-un. E rappresenta l’opportunità, per i leader dell’area, di sentire dalla viva voce del tycoon che gli Stati Uniti vogliono ancora essere protagonisti dei giochi economici e di potere che hanno luogo qui. Un ruolo che però Trump dovrà ribadire sullo sfondo dei segnali contrari lanciati mentre era il candidato repubblicano e, soprattutto, nei primi giorni alla Casa Bianca, quando – come atto primo della nuova amministrazione – il neo-presidente stracciò la Trans-Pacific Partnership (Tpp), l’accordo commerciale voluto da Barack Obama per legare a doppio filo il destino dell’America e delle nazioni del Pacifico.

Sin dalle prime battute del suo viaggio, Trump scandisce il messaggio di fondo del suo governo: è finita l’era dell’impegno incondizionato degli Stati Uniti nella pace di regioni lontane e, soprattutto, della globalizzazione di cui tutti si avvantaggiano fuorché l’America, vittima di deficit commerciali record. Per garantirsi la collaborazione degli Stati Uniti, paesi come il Giappone o la Corea del Sud – seconda tappa del tour – dovranno rinunciare alle posizioni mercantiliste, aprire i propri mercati alle merci americane e investire maggiormente in America, per creare quei posti di lavoro che Trump vuole assicurarsi per ottenere un secondo mandato alla Casa Bianca. Quanto alla sicurezza, cifra distintiva dell’ex poliziotto del mondo, gli Usa rinnovano la volontà di farsi carico di problemi spinosi come il programma nucleare e missilistico della Corea del Nord, ma solo a patto di una suddivisione più equa delle spese militari.

Trump è arrivato domenica in un Giappone ancora scosso dai lanci di missili nordcoreani di agosto e settembre, che hanno sorvolato l’isola di Hokkaido innescando il sistema di allarme via sms che avvisa tempestivamente la popolazione esortandola a mettersi al sicuro. Un trauma che ha favorito la vittoria tre domeniche fa di Shinzo Abe alle elezioni per il rinnovo della Camera bassa, conferendo al primo ministro un nuovo mandato che lo renderà il premier più longevo della storia giapponese. Una delle chiavi del successo di Abe è stata proprio la special relationship con Trump: Abe è stato il primo leader straniero a rendere omaggio in America al nuovo presidente lo scorso febbraio, e da allora si sono sentiti telefonicamente per sedici volte, a testimonianza di un rapporto inossidabile ma anche della reciproca preoccupazione per la minaccia rappresentata dall’incontrollabile Kim Jong-un.

La visita di Trump nel paese del Sol Levante si apre non a caso con un discorso marziale, pronunciato indossando un bomber, alle truppe americane nella base di Yokota. “Nessuno – nessun dittatore, nessun regime, nessuna nazione – dovrebbe sottovalutare, mai, la risolutezza americana”, dice il presidente ai suoi militari, chiave di volta di una pax americana che Trump ribadisce di voler garantire anche di fronte alle minacce reiterate del “piccolo uomo razzo” della Corea del Nord. “Voi siete la più grande minaccia per i tiranni e i dittatori che cercano di tenere in ostaggio gli innocenti”, sottolinea Trump, con una retorica che non passa inosservata a Pyongyang. Che replica a stretto giro tramite il quotidiano Rodong Sinmun. Quelle del leader Usa sono “sciocche affermazioni”, spiegano dalla Corea del Nord, e “il solo modo per tenerlo sotto controllo” è “domarlo con assoluta forza fisica. (…) Avvisiamo la consorteria di Trump ancora una volta: se vogliono evitare la rovina, non facciano affermazioni spericolate”.

Le affermazioni spericolate sono però il marchio di fabbrica della presidenza Twitter, che usa la tribuna dei social per intimidire come per blandire, per ammonire avversari e nemici e per rabbonire partner ed alleati. Tra questi ultimi ci sono anche i paesi del Pacifico, da cui l’America – nonostante le posizioni nazionaliste del capo della Casa Bianca – non intende sganciarsi per cedere terreno alla Cina. Trump usa il suo discorso alle truppe per lanciare il suo messaggio ai leader della regione: gli stati Uniti cercheranno “nuove opportunità di cooperazione e commercio, e coopereremo con amici ed alleati per costruire una libera e aperta regione Indo-Pacifica”. L’obiettivo, sottolinea Trump, è avere un commercio “libero, equo e reciproco”. Aggettivi scelti oculatamente, per ricordare il vero significato del suo slogan preferito, “America first”: gli Stati Uniti vogliono sì relazioni economiche strette, ma a patto che finisca l’era dei deficit monstre dell’America.

Questo è, non a caso, il leit-motiv del discorso che Trump pronuncia all’ambasciata americana di Tokyo, alla presenza dei vertici dei big della manifattura giapponese. “Gli Stati Uniti hanno patito massicci deficit commerciali con il Giappone per oltre 70 anni”, dice Trump. “Noi vogliamo commerci equi e aperti, ma finora il nostro commercio con il Giappone non è stato né equo né aperto. Finora, il nostro commercio con il Giappone non è né libero né reciproco”.

Rivolgendosi quindi ai super-manager di Toyota e Mazda, Trump aggiunge: “provate a costruire le vostre automobili negli Stati Uniti invece di spedirle. È possibile chiedervelo? Non è un concetto rozzo. È rozzo? Non penso”. Patti chiari, amicizia lunga: “se vi espandete un po’ di più, lo faremo nello Studio Ovale”, dice Trump, promettendo ponti d’oro a chi condurrà i propri affari in ossequio alle nuove regole dettate da un uomo che vuole passare alla storia come “artista del deal”. “Avremo più commercio di quanto si sia potuto immaginare anche sotto la TPP”, è la convinzione del presidente, per il quale “la TPP non era l’idea giusta. Alla fine, si dimostrerà che avevo ragione”.


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