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Il viaggio del Papa in Bangladesh e Myanmar e la questione dei Rohingya

“Il Santo Padre vuole portare ovunque un messaggio di riconciliazione, di pace e di perdono”, ha detto il portavoce della Sala Stampa vaticana Greg Burke presentando il ventunesimo viaggio internazionale che dal 26 novembre al 2 dicembre vedrà impegnato Papa Francesco in Myanmar, ovvero l’ex Birmania, e nel Bangladesh.

IL VENTUNESIMO VIAGGIO INTERNAZIONALE

Dopo il suo arrivo, il programma prevede che il pontefice verrà accolto il 28 a Nay Pyi Taw dal presidente della Repubblica e che il 29 incontrerà il Consiglio supremo “Sangha” dei monaci buddisti, assieme ai vescovi cattolici. Il 30 invece, a Yangon, si vedrà con il generale Min Aung Hlaing, capo dell’esercito del Myanmar, e con i rappresentanti delle minoranze religiose. Da lì la partenza per il Bangladesh, dove a Dhaka visiterà il National Martyr’s Memorial, omaggerà il padre della nazione presso il Bangabandhu Memoriale Museum e incontrerà il presidente Abdul Hamid nel palazzo presidenziale. Dopodiché, l’1 dicembre ordinerà 16 nuovi sacerdoti, prima di partecipare a un incontro interreligioso ed ecumenico per la pace, e a un altro incontro specifico con un gruppetto di Rohingya, la minoranza musulmana in Myanmar per la quale l’Onu ha denunciato una “pulizia etnica”. Fino alla tappa conclusiva, l’ultimo giorno, con i giovani.

LA QUESTIONE DEI ROHINGYA

È stato l’arcivescovo di Yangon, il cardinale Charles Maung Bo, a suggerire privatamente i due appuntamenti che terrà il Papa il 30 novembre, consigliandogli però allo stesso di non utilizzare il termine Rohingya negli undici discorsi che pronuncerà durante la visita. Enunciazioni il cui tono sarà, come cautamente sottolineato, prettamente pastorale. Il tema dei Rohingya rappresenta infatti la parte più delicata del viaggio: il nome di questa minoranza perseguitata, come riporta Patrizia Caiffa sull’agenzia Sir, “è impronunciabile perché scatena vecchi rancori e diffidenze”, in quanto considerati occupanti provenienti dal Bangladesh. La crisi poi nello Stato interno del Rakhine, quello cioè da cui provengono i 620 mila Rohingya scappati verso il Bangladesh dopo le violenze dell’esercito, ha notevolmente peggiorato la situazione, e sono loro stessi a chiedere che il Papa non li nomini esplicitamente, perché le sue parole rischierebbero di provocare ulteriori conseguenze negative nei loro confronti. Anche per questo, come scrive Andrea Tornielli su La Stampa, c’è grande attesa per le parole che Bergoglio pronuncerà.

I CATTOLICI IN MYANMAR E BANGLADESH

I cattolici sono una esigua minoranza tanto in Myanmar quanto in Bangladesh, frutto dell’impegno dei missionari cattolici, anche italiani, come il sacerdote del Pime Felice Tantardini o il beato Clemente Vismara. L’1,3 per cento nel primo dei due Paesi, 700 mila individui da confrontare a un 91 per cento di buddhisti su 51 milioni di abitanti totali, e soltanto lo 0,4 nel secondo, su 160 milioni di abitanti di cui il 98 per cento islamici. Il Myanmar è inoltre attualmente governato dalla presidente premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, che è dovuta scendere a patti con l’esercito, dopo una dittatura durata quasi sessant’anni. E dove però tuttora i militari continuano a mantenere un ruolo politico centrale, presiedendo i ministeri più rilevanti. Come anche le violenze ai danni della minoranza Rohingya testimoniano. Considerando per di più che questi non sono affatto gli unici, tra le minoranze, ad essere perseguitati.

LA CONDIZIONE DEL MYANMAR

Il Paese comprende infatti 135 etnie diverse, e 12 Stati etnici con confitti mai risolti, o peggio, inaspriti negli ultimi anni. Così quello attuale è un momento estremamente delicato, in cui la popolazione più giovane chiede più libertà e opportunità economiche, e su cui il mondo punterà i riflettori nel momento della visita del Papa (qui e qui i reportage di Patrizia Caiffa). Il Maynmar, non a caso, è uno tra i Paesi più ricchi dell’Asia, disponendo di petrolio, gas naturale, risorse idriche, oro, ma subito dopo le prime elezioni formalmente libere, la mancata stabilità politica, assieme alla burocrazia e alla limitata libertà di movimento, sta cominciando a far calare gli investimenti stranieri, in settori essenziali come le infrastrutture o i servizi. Il fatto, però, è che se dovesse cadere il supporto della comunità internazionale nei confronti della leader birmana, sarebbero gli stessi militari a tornare al potere.

LE PAROLE DEL CARDINALE BIRMANO BO E QUELLE DEL FILIPPINO TAGLE

“La Chiesa per sessant’anni non ha avuto un dialogo con le forze militari, e da questo rapporto speriamo si porti avanti un dialogo più ampio, e per questo speriamo che il Papa possa incontrare il generale”, ha detto il cardinale birmano Charles Maung Bo parlando ad Aci Stampa. “Sono già cinquecento anni che il cattolicesimo è in Myanmar” e “tutte le altre comunità religiose si riferiscono alla comunità cattolica come una sorta di catalizzatore tra le comunità religiose e il governo”, ha continuato. Rivelando che se non parlerà di Rohingya, il Papa, forse citerà “i musulmani dallo Stato di Rakhine”, ovvero li menzionerà con una definizione più estesa, assieme ad altri interventi su tematiche come la pace, l’ambiente, e l’uso delle risorse naturali. Il cardinale filippino Luis Antonio Tagle, arcivescovo metropolita di Manila, a questo ha aggiunto che “in Asia, e soprattutto in questi due Paesi, c’è una situazione politica molto precaria”, come “anche quella umanitaria lo è”, e che quindi spera “che anche se la Chiesa è piccola in entrambi i Paesi, la presenza del Santo Padre possa creare quel ponte che il Vangelo rappresenta”.

IL FUORI PROGRAMMA, I GESUITI E I COMMENTI NEL PAESE

È infine atteso un fuori programma da parte del pontefice, per il 29, e forse un incontro privato con i gesuiti del Paese, fortemente impegnati nel sociale. Coinvolti cioè negli slum, nei quartieri musulmani, o ad esempio tramite il Jesuit Refugee Service nell’assistenza a 29.000 famiglie Rohingya a Cox’s Bazar, assieme a Caritas Bangladesh. “La pace è il messaggio di cui abbiamo oggi più bisogno. Senza la pace, senza la fiducia, non possiamo fare niente.”, ha così affermato il sindaco di Yangon, Maung Maung Soe, intervistato dal Sir. A Francesco “dirò un’unica cosa: preghi per noi! Perché siamo un Paese in via di sviluppo, con un’economia che sta facendo un’enorme fatica per riprendersi e alle prese con tanti problemi sociali”. Una “chance per tutti noi, è una grande fortuna per il successo della pace in questo Paese”, ha infine descritto la visita il capo del monastero buddista di Pann Pyo Let, il monaco Ashin Pyin Nyaw Bha Tha: “Sono sicuro che se il Papa ha deciso di venire qui, c’è sicuramente una ragione che lo ha spinto a farlo. Vuol dire che c’è una speranza che lui intravede per noi, che c’è un dono di bene che può portare”. E questo perché, ha concluso il religioso, “il mondo è come un giardino dove ci sono tanti fiori. Ogni fiore ha un colore diverso, ma in ogni sua diversità e sfumatura è contenuta una bellezza infinita. Per vivere la pace, dobbiamo imparare a guardare il dono di bellezza insito in ogni religione”.

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