L’integrazione europea della difesa è l’ultima occasione per i Paesi membri di avere una solida, resiliente, strutturata e competitiva base industriale di riferimento. Parola del generale Carlo Magrassi, segretario generale della Difesa e direttore nazionale armamenti, intervenuto oggi alla Link Campus University di Roma per una lectio magistralis su “L’industria europea della difesa, prospettive e opportunità”.
L’UE RIPARTE DALLA DIFESA
La difesa comune rappresenta “l’elemento di maggior novità e importanza nel panorama europeo dei giorni nostri”, ha detto il generale Magrassi. Nonostante le crisi che hanno attraversato il continente nell’ultimo decennio (crisi economica, guerra russo-ucraina, ondata migratoria, terrorismo e Brexit), si sono riprese “finalmente le fila del progetto europeo di difesa comune ispirato a una concreta condivisione delle capacità di difesa degli Stati membri e a un’effettiva integrazione delle rispettive potenzialità industriali”. Tutto è ripartito con la presentazione della Global Strategy dell’Ue nel 2016: “È emersa la necessità di dare un ulteriore impulso all’industria della difesa europea partendo dalla ricerca tecnologica, proprio al fine di assicurare lo sviluppo e il mantenimento dei materiali e degli equipaggiamenti da impiegare per la condotta di operazioni affidate alla guida dell’Ue”. Un simile percorso era già stato intrapreso dalle industrie europee del settore, “nella piena consapevolezza da parte loro che tanto più sapranno conseguire efficaci sinergie tra le rispettive capacità tecnologiche e produttive, tanto più risulteranno commercialmente competitive e quindi vincenti sul mercato globale”. Certamente, l’integrazione ha dato il fischio d’inizio alla partita, giocata dagli Stati membri, su chi sarà in grado di guidare il processo e aggiudicarsi gli allettanti fondi europei. “Il segretariato generale della Difesa e direzione nazionale armamenti – ha promesso Magrassi – continuerà a profondere ogni sua migliore energia a vantaggio dei futuri successi delle industrie italiane della difesa in Europa e a salvaguardia del grande patrimonio di credibilità costruito dall’Italia all’interno dell’Unione”.
IL CONFRONTO CON GLI USA
Il tentativo del Vecchio continente è di adeguarsi a quanto gli Stati Uniti hanno fatto a partire dal 1993, quando il Pentagono esortò gli amministratori delegati dei maggiori gruppi della difesa Usa a “intraprendere una serie di drastiche fusioni e acquisizioni, in cambio del solo incentivo dell’abbattimento dei costi delle relative ristrutturazioni”. Il risultato fu che, dal 1993 al 2006, il numero dei gruppi del comparto Usa si ridusse da 30 a 6 attori principali. Ciò dovrebbe condurre, ha rimarcato il generale, a un ragionamento ovvio: “quando il proprio concorrente si attrezza per essere più snello e competitivo, diventa vitale fare altrettanto per non perdere le sfide del mercato nei confronti del competitor”. Eppure, l’Europa ha fatto fatica, soprattutto in virtù di una maggiore frammentazione politica ed economica. L’evidenza è nei numeri: “In Europa, l’insieme di tutti i contractors della difesa può contare su un budget totale di spesa, messo in campo dai governi degli Stati membri, di circa 227 miliardi di dollari; negli Stati Uniti, dove il totale dei contractors è circa un terzo di quelli presenti in Europa, il corrispondente budget della difesa è di circa 545 miliardi di dollari”, che potrebbero diventare 700 nel 2018 grazie all’incremento disposto dal presidente Donald Trump. “In buona sostanza – ha detto Magrassi – in Europa si tratta di sostenere il triplo delle imprese degli Stati Uniti, potendo contare su meno della metà del budget complessivo della difesa americano”.
DALLA DIPENDENZA ALL’AUTONOMIA
La scelta di fronte alla quale si trovano gli Stati Ue è, per Magrassi, “se far ricorso a fornitori extra-comunitari, solitamente statunitensi, o intraprendere collaborazioni intergovernative attraverso il lancio di programmi multinazionali di sviluppo di sistemi d’arma”. Scegliere la prima ipotesi vorrebbe dire però incrementare la dipendenza tecnologica dagli Usa. Certo, proprio la dipendenza dagli Stati Uniti, dalla fine della Seconda guerra mondiale, ha permesso a Paesi come l’Italia, il Regno Unito e la Germania (non la Francia che ha conservato la propria sovranità tecnologica) di “trarre il know-how necessario alla riconquista di un’autonomia tecnologica”, evidente nelle esperienze dei consorzi per il Tornado e, più tardi, per l’Eurofighter. Su questo sembra opportuno puntare ora.
UNA SCELTA FILOSOFICA
Alla base della futura integrazione c’è però “una scelta filosofica”, ha spiegato Magrassi agli studenti del master in Intelligence e sicurezza della Link Campus Univeristy. Una scelta che riguarda il rapporto tra la domanda (amministrazione, difesa e governo) e offerta (industria), e che è tra il modello anglossasone e quello continentale (per lo più francese). Il primo, ispirato ai principi liberisti, si basa “sullo schema della public company, ovvero di una società a capitale interamente privato”, di cui “lo Stato non detiene la proprietà, a meno della sua golden share”. Ne consegue che “la proprietà straniera delle aziende della difesa non è motivo di preoccupazione per il governo, sempre che le capacità strategiche rimangano sul territorio del Paese”. Il modello continentale prevede invece “una rilevante partecipazione statale atta a esercitare il controllo delle imprese stesse che funga da ostacolo agli investitori stranieri, evitando così eventuali acquisizioni sgradite”. L’esempio recente è l’accordo, seppur sul civile, Fincantieri-Stx su cui è intervenuto il governo di Parigi. Nonostante tale modello sia il più diffuso, per Magrassi è il primo a essere più adatto all’integrazione continentale.
LE RISORSE DISPONIBILI E IL NODO DELL’EDIDP
In ballo ci sono risorse rilevanti. Lo scorso giugno è stata specificata la portata del Fondo di difesa europeo (Edf) previsto dall’European Defence Action Plan (Edap) della Commissione. Per la ricerca, ha ricordato Magrassi, alla Preparatory Action (2018-2020) sono destinati 90 milioni di euro dal budget Ue, che diventeranno 500 all’anno dal 2021. Per le capacità, il Defence Industrial Development Programme (Edidp) prevede 500 milioni nel biennio 2019-2020, e un budget di 1 miliardo all’anno dopo il 2020. Proprio sull’Edidp permangono però alcuni dubbi relativi ai vincoli – su proprietà/localizzazione geografica delle industrie degli Stati membri beneficiari – che, “seppur finalizzati a tutelare il mercato della difesa dell’Ue, potrebbero limitare le potenzialità del citato Programme, circoscrivendo la collaborazione extra-europea e ridimensionando il bacino delle industrie europee beneficiarie degli incentivi finanziari previsti dall’Edf”. È il caso, citato da Magrassi, di aziende come Avio Aero (business della statunitense GE Aviation) che, seppur di fatto europee per attività e contributo effettivo, sarebbero escluse dai fondi Ue. Ciò, ha detto Magrassi, potrebbe “limitare di molto lo slancio di questa iniziativa e tarpare le ali a molte realtà nostrane”. Perciò, occorre “un ulteriore approfondimento (sia in ambito nazionale che in ambito europeo) per capire quanto i suddetti vincoli potranno impattare sul campo di azione delle nostre industrie di riferimento, al fine di presentare nel 2019 degli adeguati progetti”.