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Ecco ragioni e conseguenze della decisione di Donald Trump su Gerusalemme

Trump, Cina, naso sanguinante, congresso

Ieri pomeriggio, nella Diplomatic Reception Room della Casa Bianca, Donald Trump ha ufficializzato la decisione di cui tutto il mondo aveva parlato nelle precedenti 48 ore. Un atto controverso, salutato con entusiasmo dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che parla di una “giornata storica”, e accolto invece con amarezza e rabbia dal presidente palestinese Mahmoud Abbas, che proclama lo sciopero generale ed esorta il suo popolo a scendere in piazza.

“Ho stabilito”, ha detto il presidente Usa davanti ai reporter, “che è ora di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come capitale di Israele”. “Do anche indicazioni al Dipartimento di Stato”, ha aggiunto , “di iniziare i preparativi per spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme”.

Con queste parole trova compimento una promessa fatta da The Donald in campagna elettorale. Ma si consuma anche una rottura con la comunità internazionale. Da Papa Francesco all’Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Difesa dell’Unione Europea Federica Mogherini, dal re di Giordania Abdullah II al presidente francese Emmanuel Macron, passando per i reali sauditi e per il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, è stato un coro di critiche per un atto ritenuto lesivo dei diritti del popolo palestinese, oltre che controproducente nei riguardi di un processo di pace che la Casa Bianca vorrebbe far decollare e che ora tutti ritengono compromesso.

Ma nonostante le pressioni convergenti, Donald Trump ha tirato diritto. Era, d’altronde, “la cosa giusta da fare”, ha sottolineato il presidente. Anzi, è “un passo fatto con grande ritardo”, ha detto ancora Trump, ricordando che gli Stati Uniti sono stati tra i primi, nel 1948, a riconoscere il nuovo Stato ebraico, nato in ossequio ad una risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu e col sangue degli ebrei che, armi in pugno, hanno respinto il tentativo dei paesi arabi coalizzati di rigettarli in mare.

Il presidente più anticonformista della storia recente è anche quello che fa uscire gli Stati Uniti dall’ambiguità. Trump scioglie l’equivoco che ha condotto per decenni la superpotenza ad appoggiare strenuamente Israele nel suo scontro con le potenze arabe e con il malanimo della comunità internazionale, da sempre schierata con i palestinesi, senza però esaudire il desiderio del suo alleato: veder riconoscere il diritto di un intero popolo ad avere come capitale una città che da tremila anni è la culla della propria civiltà. Come tutti gli altri paesi, l’America aveva scelto Tel Aviv come sede della propria ambasciata, marcando la distanza – in nome dell’intenzione di fare degli Stati Uniti il broker onesto di un auspicabile negoziato tra israeliani e palestinesi – con la proclamazione con cui nel 1980 la Knesset aveva eletto Gerusalemme capitale “unica e indivisibile” dello Stato ebraico.

Ieri Trump ha reciso il nodo gordiano, dichiarando che “finalmente riconosciamo l’ovvio. Che Gerusalemme è la capitale di Israele”. Si tratta “né più né meno di un riconoscimento della realtà”. Gerusalemme è infatti “la sede del governo israeliano. Del parlamento israeliano, della Knesset, e della Corte Suprema israeliana. È la sede della residenza ufficiale del primo ministro e del presidente. È il quartier generale di molti ministeri”. Solo l’ipocrisia dei precedenti inquilini della White House, da cui Trump vuole allontanarsi definitivamente, ha spinto gli Stati Uniti a negare per così tanto tempo l’evidenza. “Per decenni, i presidenti americani in visita, i segretari di Stato e i leader militari hanno incontrato le loro controparti israeliane a Gerusalemme, come ho fatto io stesso nel mio viaggio in Israele”.

Donald Trump, uomo pragmatico e risoluto, estraneo alle sottigliezze della diplomazia, crede di essere chiamato dalla storia a dare giustizia ad un popolo che gli americani sentono vicino più di qualsiasi altro. Un afflato che deriva dalla condivisione di radici culturali e religiose millenarie, che nella città santa hanno il loro fulcro e nel moderno Stato di Israele il miglior custode. “Gerusalemme non è solo il cuore di tre grandi religioni”, spiega Trump, è anche un posto “dove ebrei, musulmani e cristiani e popoli di tutte le fedi sono stati liberi di vivere e pregare in accordo alla propria coscienza e al proprio credo. Israele è e deve rimanere un posto dove gli ebrei pregano al muro occidentale, i cristiani camminano lungo le stazioni della via crucis, i musulmani pregano alla moschea di al-Aqsa”.

Questo riconoscimento, dunque, è dovuto ad una nazione coraggiosa che ha difeso per settant’anni il suo diritto ad essere unita e salda nei suoi valori democratici, a fornire ad un popolo perseguitato un rifugio, un tetto sotto il quale tenere accesa la fiaccola di una cultura ed una fede che i nazisti hanno cercato, invano, di cancellare dalla faccia della terra e che oggi, a settant’anni dalla Shoah, islamisti e terroristi vorrebbero espellere di nuovo.

La questione palestinese è l’emblema di un conflitto che ha assunto sfumature di scontro di civiltà, di lotta all’ultimo sangue di due confessioni che la storia e il destino hanno voluto che condividessero lo stesso lembo di terra. Riconoscendo Gerusalemmme come capitale dello Stato ebraico, gli Stati Uniti sembrano ora schierarsi definitivamente da una parte e, come i leader mondiali hanno sottolineato in queste ore, umiliare l’altra.

Ma non è così, dice Trump. La mossa di ieri serve anzi a “far avanzare il processo di pace”. Ed è semmai il primo passo verso “un accordo duraturo”. “Il mio annuncio di oggi”, ha precisato il presidente, “segna l’inizio di un nuovo approccio al conflitto tra Israele e i palestinesi”.

Il percorso di pace che Trump intende tracciare si muove sul filo di questo apparente paradosso. “Questa decisione”, ha spiegato, “non intende in nessun modo riflettere un allontanamento dal nostro forte impegno nel facilitare un accordo di pace duraturo. Vogliamo un accordo che sia un grande affare per gli israeliani e un grande affare per i palestinesi”, ha detto, scandendo quel termine “deal” che è il perno dell’approccio trumpiano a tutti i problemi che si presentano nello Studio Ovale o nella Trump Tower: “Non stiamo prendendo posizione su qualsiasi aspetto dello status finale (di Gerusalemme), inclusi i precisi confini della sovranità israeliana a Gerusalemme e la definizione dei confini contesi. Tali questioni saranno decise dalle parti in causa. Gli Stati Uniti rimangono profondamente impegnati nel facilitare un accordo di pace che sia accettabile da entrambe le parti. Intendo fare ogni cosa in mio potere per aiutare a forgiare un simile accordo”.

Se da ieri l’America è più vicina a Israele, ciò non sposta di un millimetro la sua volontà di sciogliere il rompicapo della Palestina. Trump ha rassicurato gli scettici che gli Stati Uniti “appoggeranno una soluzione a due stati se ci sarà l’accordo tra le due parti”. Questa è, d’altronde, la missione che il presidente ha affidato al suo genero e consigliere Jared Kushner, impegnato da mesi nel tessere la tela diplomatica che dovrà favorire quello che Trump ha più volte definito come “l’accordo definitivo”.

L’iniziativa di pace su cui Kushner è al lavoro insieme all’inviato speciale della Casa Bianca Jason Greenblat e all’ambasciatore americano in Israele David Melech Friedman sarà svelata probabilmente a gennaio. E se non se ne conoscono per ora i dettagli, un punto fermo è già stato fissato.


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