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Così Gianni Letta ha celebrato Andreotti, politico e scrittore

Immaginare cosa accadrebbe se Giulio Andreotti fosse oggi ancora vivo, alle prese con le vicende dell’attuale situazione politica italiana, con lo sguardo rivolto alla Chiesa e al Vaticano, e un occhio sugli Stati Uniti di Trump, è un’impresa sicuramente ardua, ma allo stesso tempo capace di sollevare sorrisi spontanei e di una marcata nostalgia. Specialmente quando ci si immagina la sua abilità nel condensare il costume e l’umore di un’epoca in brevi battute taglienti, segnate da quell’ironia che forse ha maggiormente caratterizzato l’atteggiamento pubblico di Andreotti, e utilizzarla ad esempio all’interno di un tweet. O per uno scambio di battute social.

Oppure riallacciando il pensiero al fatto che “quando diresse il mensile 30 giorni fu uno dei pochi che anticipò gli scritti di Bergoglio, che aveva conosciuto a san Paolo fuori le mura”, come ha rivelato Gianni Letta durante la presentazione all’Istituto Sturzo di Roma dell’ultimo volume postumo del politico democristiano ”Il Buono Cattivo”, appena pubblicato da La Nave di Teseo. Perché Andreotti era anche questo: oltre che uomo di Stato e il politico di gran lunga più longevo della storia della repubblica italiana, per alcuni un primato di valore mondiale, un infaticabile scrittore, il tutto intrecciato dalla figura professionale del giornalista.

“Alla Camera o al Senato era sempre lì che scriveva: libri, articoli, lettere, diari. Sempre una ironia lieve, garbata, romana, che lo connotava. Qualche invidioso diceva che l’umorismo per Andreotti era un modo per evadere la realtà. Era invece la sua natura, assorbita nell’infanzia romana. Nonostante il modo leggero però andava sempre all’essenza delle cose, era profondo, al contrario di quel nichilismo che adopera sempre la retorica delle forme apocalittiche”, ha così spiegato Letta, visibilmente emozionato.

Il libro è un romanzo ripescato dalle sue carte non pubblicate: la figlia Serena, riordinando l’archivio, ha trovato questo scritto inedito che lo ha subito colpita. E che dopo averlo fatto leggere a familiari e all’editore, si è deciso di pubblicare. Pagine scritte nel ’73, mentre era capogruppo della Dc alla Camera, subito dopo la pubblicazione da parte di Rizzoli nel ’72 de “I minibigami”, e giusto un anno prima del referendum del ’74 sul divorzio. Ed è forse proprio questa la ragione per cui Andreotti decise di non pubblicarlo: se il primo, “I minibigami”, aveva creato critiche e ostilità, il secondo era meglio lasciarlo nel cassetto. Così continuò a dedicarsi agli studi su Pio IX e sulla fine dello Stato Pontificio, altra sua grande passione.

Quello del divorzio e dell’annullamento del matrimonio è infatti proprio il tema centrale di questi scritti postumi. Anche se in realtà si tratta di un libro di narrativa, ambientato nel ’70 in un’immaginaria villa sul lago di Como, residenza della vacanze di avvocati e magistrati. Luogo dove, sera dopo sera, tra calici di vino e battute distensive, gli inquilini affrontano i più vari argomenti dell’attualità di allora, fino ad arrivare al tema del matrimonio. Mentre oggi ci si immagina che la discussione verterebbe su livelli ben distanti, forse. O forse si finirebbe proprio per indagare l’attuale crisi della famiglia, della coppia, del rapporto uomo-donna, e della natalità. Andreotti nel suo racconto fa questo, con lo stile che lo contraddistingue, ovvero cogliendo le più svariate sottigliezze e paradossi, in questo caso da parte della Sacra Rota.

“Un libro che credo si definisca di varia umanità, con un carattere narrativo molto divertito, che non appare nei libri immediatamente precedenti o seguenti, che trattavano di politica o di storia”, ha così spiegato la figlia Serena Andreotti nel suo intervento. “Il titolo è metafora su se stesso, ironica auto analisi. Andreotti era padrone della lingua italiana. L’uso delle parole, assieme a tante altre cose, che rimpiangiamo di lui e della sua generazione”, ha aggiunto il fondatore di Auxilium Angelo Chiorazzo nel presentare l’incontro. “Di sera depositava la memoria quasi per purificazione, e al mattino la prosa è nitida e lieve”: il suo stile è “democristiano, teso sempre ad accordare le cose e mai a romperle”, in cui “ironia, curiosità, e compassione per la gente semplice” sono i suoi tratti caratteristici, ha specificato ancora Gianni Letta.

“Chiarezza della prosa giornalistica all’interno del caos, capacità di sintesi” e di “scrutare nelle pieghe delle più dolorose e frastornanti vicende umane”, parte di una “generazione oratoriale nei puntini si sospensione e negli ammiccamenti, ma che a loro volta erano un bellissimo contraltare alla retorica fascista a cui lui si opponeva fin da ragazzo”, sono i tratti invece sottolineati dal giornalista Filippo Ceccarelli. All’elemento del divorzio si associa poi il fatto che la sua battaglia di denuncia gli costò il posto da ministro della Difesa. Così nel governo Moro V finisce al Bilancio, e scrive il libro “Ore 13: il ministro deve morire”, ha raccontato Ceccarelli. “Tutti si chiedono il perché avesse scritto questo libro”. La risposta è forse nella sua “imperscrutabilità, nel trovarsi sempre in un punto dove non si doveva trovare, nella condizione di Andreotti come uomo di mistero che non si sapeva mai cosa dovesse fare”.

Interessante è anche capire cosa Andreotti scriveva, in parallelo, in quello stesso periodo, e quindi l’interpretazione data su Pio IX e sulla fine dello Stato Pontificio, di cui ne osservava la caduta con “senso di fatalismo e di rassegnazione ironica”, come ha spiegato don Roberto Regoli, storico e docente alla Pontificia Università Gregoriana. “Il pontificato di Pio IX può essere inteso a partire da un punto centrale di non ritorno, l’uccisione del conte Pellegrino Rossi, omicidio che blocca ogni possibile riforma della Chiesa e della sua storia”, e nel ‘48 “vi era in gioco l’assetto italiano e mediterraneo”. Andreotti, ha spiegato Regoli, “condanna chiaramente l’operato politico del Papa ma non quello spirituale. Il pontefice venne considerato da Andreotti uno dei papi meno politici che la Chiesa moderna abbia mai avuto. Un sommo sacerdote: peccato, scrive Andreotti, che si sia occupato di politica”.

Ma lo “stile affabulatorio” dell’Andreotti scrittore va oltre i suoi testi storici: “Affascina il tono di narratore molto insolito, a volte quasi beffardo e insolente e preferisce sempre strizzare l’occhio ai lettori cercandone la complicità prendendo in giro gli altri”, ha concluso il giornalista e scrittore Francesco Longo. “Il narratore si mette sempre in uno sguardo di critica”, “nuovo e insolito”, “che scorge le contraddizioni, ribalta i proverbi, rovescia il senso comune”, ed è “allergico alla retorica”. Con “l’idea che la narrativa sia l’unico modo per raccontare la verità”. Che se ci si pensa, ha scherzato in definitiva Longo, “è l’idea di Gesù quando si esprimeva in parabole”.

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