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Tagliare le tasse universitarie? Ecco perché è un errore

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L’abolizione delle “tasse universitarie” è stata annunciata da Liberi E Uguali (LeU) come punto centrale del loro programma di governo (ove, dopo le prossime elezioni, avessero l’opportunità di fare parte dell’Esecutivo). Tenta anche numerosi candidati del Partito Democratico (PD) e il Movimento Cinque Stelle (M5S). Vi viene affiancata, come complementare a questa misura, l’abolizione di quello che viene chiamato il “numero chiuso”, ossia gli esami e i test attitudinali selettivi per avere accesso ai corsi di laurea, sia di primo livello sia magistrale.

Separatamente o insieme, le due misure vengono presentate come strumenti per riattivare l’”ascensore sociale”, per fare salire gli studenti di fasce sociali meno abbienti, ai piani più elevati della società. In effetti, ove fossero attuate, queste misure avrebbero implicazioni esattamente contrarie alle intenzioni proclamate: intaserebbero le università con studenti che hanno poca voglia (ed in certi casi poca capacità) di studiare, provenienti in larga misura da fasce ad alto reddito, specialmente in corsi di studio di cui il mercato del lavoro ha poco fabbisogno, renderebbero ancora più difficile la didattica e danneggerebbero gli studenti meritevoli provenienti dalla fasce a basso reddito.

Ciò non vuole dire che il sistema attuale delle “tasse universitarie” debba restare immutato. Uno studio di Lorenzo Cicatiello, Amedeo Di Majo ed Antonio Di Majo (per averlo rivolgersi a antonio.dimajo@uniroma3.it) sviscera con grande cura le contraddizioni e iniquità di quello in vigore alla base della normativa più recente e sottolinea l’urgenza di riformarlo, sulla base di principi chiari e coerenti.

Di questi, a mio giudizio, il primo è la differenza tra tasse ed imposte: le prime sono pagamenti che vengono effettuati per avere una prestazione dallo Stato (o da altre pubbliche amministrazioni); le seconde sono l’apporto che ciascuno fornisce  all’erario a seconda della propria capacità contributiva. La norma costituzionale sulla progressività della imposizione non della tassazioni.

Il secondo è che le “tasse universitarie” hanno lo scopo non solo di contribuire a finanziare un “bene di utilità collettiva” o “bene sociale” come l’università, ma anche e forse soprattutto a selezionare candidati verso percorsi formativi di cui c’è richiesta, ad incentivare gli studenti ad impegnarsi per terminare bene il corso entro gli anni previsti e, di rimbalzo, a penalizzare i nulla facenti e i poco studiosi (in breve, “i somari”) ad intasare i corsi e ad indurre a restare nell’università come “fuori corso”, danneggiando tutti, anche loro stessi, perché la didattica viene resa più difficile. Le “tasse universitarie” dovrebbero essere differenziate per corso di laurea: più basse per i corsi di laurea in cui c’è domanda nel mercato del lavoro o si paventa penuria di personale laureato ben formato (segnatamente i corsi professionalizzanti e scientifici) e più alte in quelli in cui lo studio viene vissuto o per potersi fregiare del titolo di laureato o come puro bene di consumo. Naturalmente, dovrebbero essere corredate da un meccanismo di esenzioni e borse di studio tale da premiare gli studenti meritevoli provenienti da fasce sociali a basso reddito- secondo i vecchi, ma sempre validi, principi dell’Unesco in materia di istruzione universitaria.

La soppressione delle “tasse universitarie” e del “numero chiuso” provocherebbe lo scadimento delle università statali e incentiverebbe la migrazione di studenti di alta qualità verso le università private di eccellenza (italiane o straniere), che di solito offrono poche borse di studio ai meritevoli delle fasce basse. C’è il rischio che anno dopo anno le università statali diventino rimpinzate di “somari” con danni soprattutto per gli studenti capaci e volenterosi ma provenienti da fasce a basso reddito.

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