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Ordine non programmato e libertà umana. L’intervento di Ocone

“Non sarebbe un’esagerazione dire che la teoria sociale comincia con – ed ha un proprio oggetto solo a causa della – scoperta che esistono strutture ordinate, le quali sono il prodotto dell’azione di molti uomini, ma che non sono il risultato di una progettazione umana”. Così scrive Friedrich von Hayek, a proposito di quelle istituzioni (il diritto, la lingua, l’economia) che, pur essendo dovute all’azione umana, nascano da un programma formulato dagli uomini. L’economista austriaco, premio Nobel nel 1974, parla di un “ordine spontaneo” o “non programmato” (ma anche, con termine greco, di “cosmos”). E di esso offre una teoria vasta e compiuta in diverse sue opere. Ed è su questa teoria che egli “fonda” il suo liberalismo. Sarebbe tuttavia un errore pensare che il concetto non abbia una storia precedente a Hayek: di esso se ne trovano tracce disseminate in tutta la filosofia dell’età moderna (a partire almeno da Niccolò Machiavelli esaltatore del conflitto come generatore di libertà e potenza delle repubbliche).

La ritroviamo sia nel filone dell’illuminismo scettico ma fortemente pragmatico degli scozzesi soprattutto, sia, e non deve meravigliarci, nelle correnti variamente idealiste e storicistiche che hanno avuto la loro roccaforte soprattutto fra Italia e Germania nei secoli XVIII e XIX (e nei paesi anglosassoni solo nei decenni a cavallo fra i due secoli). Dal primo punto di vista, è possibile ricostruire una genealogia che va dal concetto di “vizi privati e pubbliche virtù” sviluppato da Bernard de Mandeville (che scozzese non era ma era un olandese trapiantato in Gran Bretagna) nel poema satirico La favola delle api (1705) a quello di “mano invisibile” elaborato da Adam Smith in La ricchezza delle nazioni (1776, in cui si legge la celebre frase: “non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci spettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse”)

Quanto al filone idealistico –  storicistico esso tende invece sempre più a rendere immanente e secolare il concetto cristiano di provvidenza. È un processo che da Giambattista Vico (ne La scienza nuova del 1744 il concetto di “eterogenesi dei fini”, di cui parlerà a fine Ottocento lo psicologo e filosofo empirico Wilhelm Wundt, è espresso che non la frase: “sembravano traversie ed eran in fatti opportunità”) a Immanuel Kant (per cui la natura realizza i suoi fini servendosi della “socievole insocievolezza” degli uomini”); da Georg Wilhelm Friedrich Hegel (che in diverse sue opere parlerà di una “astuzia della ragione” che governa la storia oltre le umane intenzioni) a Benedetto Croce ( che distingue le azioni, “opera degli uomini”, dai loro risultati, gli accadimenti”, che sono “opera di Dio”, cioè della storia).

Alla fine, come si diceva, Hayek è come se tirasse le fila di tutta questa storia. Egli aggiungerà che ogni intervento vivo e intenzionale sul corpo sociale finisce per generare non solo esiti non voluti ma anche non auspicabili. Soprattutto, in economia (ove l’ordine spontaneo è da lui anche indicato con il nome greco di “catallassi”). E ciò per un principio, implicito già in Smith: nessuno possiede una conoscenza totale delle le informazioni parcellizzate e disperse fra i mille individui che compongono una società. Con un passaggio, certo non pacifico da un punto di vista teoretico, dal pensiero alla prassi, si può perciò dire che ogni programmazione o ingegneria sociale è di per sé lesiva della libertà umana.

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