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Pubblica amministrazione, perché solo i dirigenti possono garantire la riforma

Di Giuseppe Beato
dirigenti

È difficile parlare in modo costruttivo di pubblica amministrazione in presenza del moto d’insofferenza che desta nell’opinione pubblica l’idea stessa di un ufficio pubblico: dalle file agli sportelli, all’atteggiamento a volte “non amichevole” di impiegati pubblici. Non è sempre così, naturalmente. Ma i buoni comportamenti dei singoli non fanno sistema e alla fine prevalgono i divieti incomprensibili, la lentezza delle decisioni, la solitudine del singolo di fronte a una congerie di uffici pubblici sordi e incapaci di dare attuazione fluida ai suoi diritti. Poi, un secondo dopo, quella stessa amministrazione diventa efficiente e tetragona quando si tratta di reprimere un errore veniale del singolo cittadino. Proviamo allora a mettere in fila i principali mali che affliggono le amministrazioni pubbliche italiane, senza la risoluzione dei quali non avremo mai né efficienza né qualità.

La distribuzione anarchica delle competenze istituzionali dei soggetti che fanno amministrazione pubblica. Massimo Severo Giannini, 60 anni fa, rilevò “l’assoluta empiricità della ripartizione delle funzioni”. Da allora la situazione è peggiorata: la redistribuzione delle competenze amministrative effettuata dalle riforme Bassanini e dalla riforma del titolo V della Costituzione ci hanno consegnato una situazione in cui, su tutti i temi rilevanti della macchina amministrativa della Repubblica, hanno pari dignità e potere decisionale Stato, Regioni, Città metropolitane e Comuni. Su un’infinita serie di questioni rilevanti – dalle fonti energetiche ai rifiuti, alle infrastrutture, all’istruzione – insistono contemporaneamente i punti di vista e le posizioni frequentemente in dissenso fra questi soggetti. Con il risultato pratico che sia i cittadini che le imprese non hanno bussole né riferimenti per muoversi in una dimensione in cui i pubblici poteri si paralizzano vicendevolmente, senza che via sia un qualsivoglia principio, non di gerarchia, ma di ordine e di sinergia costruttiva fra questi poteri.

Il sistema di valutazione delle e nelle pubbliche amministrazioni continua a rappresentare il vero buco nero dell’intero funzionamento degli uffici pubblici. Tutte le teorie organizzative convergono da oltre trent’anni sul concetto secondo cui nel mondo pubblico è vitale attivare forme di valutazione di tre aspetti cardine dell’attività esecutiva dei governi: a) le politiche pubbliche (cioè l’utile e corretta attuazione delle leggi promulgate); b) i risultati, misurati e visibili alla collettività, conseguiti dalle singole amministrazioni; c) le performance individuali dei dirigenti e dei dipendenti. In Italia si parla e si legifera da più lustri sulle tre forme di valutazione, ma la loro “esistenza in vita” rimane relegata a convegni di esperti e ai contratti integrativi annuali delle amministrazioni pubbliche, ritenuti dall’opinione pubblica come i responsabili della distribuzione dei premi “a pioggia” a dirigenti e dipendenti. Non difettano una serie di principi e criteri per la buona valutazione, dettati dalla legge o demandati alla contrattazione sindacale, ma ciò che manca e/o non opera – come invece in altre amministrazioni occidentali – sono le autorità pubbliche indipendenti che dovrebbero governare i processi di valutazione: senza un sistema di valutazione reso funzionante da autorità dotate di poteri reali nessuna amministrazione pubblica sarà mai incentivata ad attivare sistemi di qualità, una buona organizzazione aziendale, un sistema di ascolto, ricettivo e sollecito nelle risposte, alle necessità del cittadino/cliente.

La privatizzazione del rapporto di impiego dei pubblici dipendenti e il ruolo del sindacato. C’era una volta – fino agli anni ’90 – un sistema amministrativo dal tratto formalistico: alla politica il potere effettivo di gestione (i provvedimenti venivano firmati dai ministri e dai vertici politici delle amministrazioni) e alla dirigenza un ruolo meramente esecutivo e compiacente. La fine della prima Repubblica con i suoi strascichi giudiziari favorì un ciclo di riforme – tuttora vigente – che attribuì i poteri e le responsabilità di gestione alla dirigenza, rendendo nel contempo temporaneo il suo rapporto d’ufficio; soprattutto, venne demandata alla legislazione del lavoro privato e ai contratti collettivi di lavoro la regolazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici. In altri termini, la regolazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti è stata demandata ai sindacati che legittimamente li rappresentano (sistema di cogestione), ma ciò fa prevalere nei fatti la tutela degli interessi dei lavoratori pubblici sulla cura degli interessi generali delle collettività degli amministrati. Ne è risultata schiacciata nei fatti anche la potestà pubblica (solo teoricamente proclamata nel decreto legislativo n. 165/2001) di organizzazione dell’attività degli uffici: fabbisogni gestionali, carichi di lavoro, personale utile, mobilità. La dura realtà, pertanto, ci consegna una pubblica amministrazione se possibile anche più vecchia e inefficiente rispetto a tre decadi fa, governata da una “triade” formata dai politici al vertice delle amministrazioni, dai grandi sindacati e dai dirigenti. Questi ultimi, peraltro, costituiscono i classici vasi di coccio di manzoniana memoria perché la temporaneità dei loro incarichi (nella misura attuale di tre anni, eludibile attraverso operazioni fittizie di “riorganizzazione” degli uffici) li rende vulnerabili ai vertici politici in ordine alla conduzione degli uffici assegnati e deboli nei confronti dei sindacati che hanno potere legale di contrattare le loro retribuzioni.

In mancanza di idonei interventi sulle cause della crisi della P.A., rimarranno vane le prediche e gli interventi di “riforma”. A questo punto, per porre fine all’impasse, è lo stesso ceto dei dirigenti pubblici ad essere chiamato a dare una sua visione di progetto su ciò che dovrebbe essere fatto per invertire questa rotta. Stiamo parlando di circa 170.000 dirigenti pubblici articolati fra Stato, Enti pubblici non economici, Regioni, Province e Comuni. Fra questi prevale il numero dei dirigenti medici e di specifici profili professionali (i dirigenti amministrativi sono circa 26.000). Purtroppo questi dirigenti tendono a parlare poco fra loro e si caratterizzano per una, pur lieve, reciproca diffidenza, alimentata sia dalle varie specificità, sia dai variegati profili retributivi fra dirigenti di amministrazioni diverse. E sono sparsi in molti “rivoli” costituiti da organizzazioni ed associazioni, ciascuna gelosa del proprio “brand” e speranzosa di poter felicemente dialogare da sola con il governo di turno.

Ma è ormai tempo che la dirigenza pubblica, con adeguata forza etica e impegno civile, guardi dentro sé stessa e dentro le proprie contraddizioni e cerchi una sua omogenea capacità di intervento. Altrimenti resterà in balia dell’ultimo dei demagoghi. Essa deve comprendere – magari e preferibilmente insieme alla dirigenza delle imprese private – che la battaglia per un’amministrazione pubblica di qualità non si fa per difendere (solo) i propri interessi di categoria, ma si accredita verso la pubblica opinione se è capace di analizzare, intercettare e interpretare correttamente gli interessi generali della comunità nazionale.

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