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Aldo Moro e la grandezza di un conservatore progressista

Aldo Moro

Tracciare un profilo di Aldo Moro, a quarant’anni da quella tragica mattina in cui si consumò il sequestro e la strage di Via Fani, è estremamente difficile: da un lato perché si rischia di dire cose scontate, risapute, retoriche e ripetitive; dall’altro perché si può finire, come quasi sempre avviene in questo caso, per concentrare tutta l’attenzione sull’epilogo funesto, non riflettendo a dovere sulla complessa personalità politica e accademica del protagonista.

Il grande statista pugliese cominciò in modo rilevante la sua carriera pubblica partecipando alla Costituente, intervenendo cioè a quella straordinaria opera di fondazione dell’Italia Repubblicana che ancora oggi ci contraddistingue nella nostra identità istituzionale, etica e politica.

Il suo contributo democristiano all’assise generale non fu appariscente e spettacolare, come quello di Amintore Fanfani e di Giorgio la Pira, ma fu non meno rilevante e incisivo per le sensibilità peculiari che vi apportò e i motivi costanti che introdusse nelle commissioni: lavoro, scuola, partiti politici, ordinamento regionale, eccetera.

Il 4 marzo del 1947, intervenendo all’Assemblea plenaria sui principi fondamentali della Costituzione, espose in modo eloquente il proprio pensiero complessivo sulla Repubblica nascente: “Costruire un nuovo Stato, e lo Stato è certamente una forma essenziale, fondamentale di solidarietà umana, vuol dire prendere posizione sulla concezione dell’uomo e del mondo”. Poco dopo, depurando questa visione generale, aggiunse: “Uno Stato non è veramente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge”.

Ecco compendiata già tutta l’aderenza filosofica di Moro al personalismo cattolico del ‘900, in particolare a Jacques Maritain e ad Emmanuel Mounier, ma anche il suo singolare modo giuridico di coniugarne la verità spirituale e materiale, reale e procedurale, molto diverso da altri grandi protagonisti della politica cattolica e democratica di quella generazione.

La logica politica di Moro, d’altronde, si lascia afferrare a pieno non tanto nella lenta costruzione negli anni ’70 del cosiddetto ‘compromesso storico’, bensì nella sua ascesa all’interno della Dc che lo portò nel 1958 alla Segreteria e nel ’63 a formare il primo governo organico di centrosinistra.

Il suo antagonista non era Giulio Andreotti, come spesso si pensa, ma l’amico Fanfani. Lo differenziava da questi non l’idea degasperiana, comune ad entrambi, che il centro dovesse guardare a sinistra, specialmente al Partito Socialista, per portarlo nell’area democratica, ma il modo con cui tale collaborazione dovesse essere attuata dalla Dc.

Fanfani era temperamentale, dossettiano, convinto che lo Stato dovesse agire per trasformare la società, mediante l’egemonia democristiana, e battere così il Pci sul piano culturale e nel suo stesso terreno di consenso: in primo luogo vincere la povertà e organizzare socialmente il lavoro. Moro, invece, più pacato e diplomatico, sapendo che non poteva esserci alcuno sbocco a destra, credeva non tanto nell’azione riformatrice volontarista del governo, ma nella compartecipazione al potere tra diversi soggetti e nella funzionalità delle dinamiche di tipo parlamentare. Piero Craveri ha sintetizzato questa divergenza, dicendo che “Fanfani era per il sistema ‘di partito’, mentre Moro per quello ‘dei partiti’”. Fu Moro stesso a definire il primo governo fanfaniano di centrosinistra del ’62 come la maggioranza delle “convergenze parallele”, a cui però egli preferì, dopo la batosta elettorale e il tramonto del fanfanismo, la più concreta formula del “centrosinistra organico”.

Pietro Nenni, refrattario ad entrare fino ad allora nella maggioranza con la Dc, accettò così di parteciparvi, motivando la scelta con uno famoso discorso sul “socialismo democratico”, che decretava di fatto che il Psi era diventato anticomunista e pienamente repubblicano.

Moro dal ’63 al ’68 guidò tre governi con i Socialisti che furono tra i più conservatori della storia repubblicana, seppur sostenuti dalla maggioranza che era la più progressista possibile per quei tempi. Tant’è che egli stesso sentì in modo molto lacerante e come responsabilità personale la crisi del ’68, il fallimento cioè dell’allargamento della base democratica dello Stato, passando all’opposizione nel partito e mettendosi in ascolto delle ragioni sociali di quella ribellione generazionale, tanto radicale da sfociare poi nel terrorismo.

Fu così che negli anni ’70 pensò che la democrazia dovesse essere riportata nel quadro della rappresentatività repubblicana, mediante un dialogo tra i due grandi partiti di massa. Quella prima, durissima crisi anti politica richiedeva cioè, secondo Moro, ma anche secondo Enrico Berlinguer e Franco Rodano, un’analisi intelligente, responsabile e morale nei due partiti maggiori, una risposta che fosse all’altezza delle spinte violente e antidemocratiche in atto sia a destra che a sinistra.

Il suo motto divenne, durante l’esecutivo breve ma importante del 1974 Dc-Pri, “preferire il confronto con i comunisti all’alternativa reazionaria e rivoluzionaria”. Anche in questo caso le sue differenze sia con Fanfani e Andreotti erano evidenti. Il primo, ritornato infatti alla segreteria dopo l’accordo di Palazzo Giustiniani del 1973, era per la chiusura al Pci e il ritorno ad un centro-sinistra che guardasse esclusivamente ai Socialisti; il secondo, invece, privilegiava un centrodestra, elettivamente rivolto ai Liberali di Giovanni Malagodi e concentrato sul recupero del consenso moderato dei ceti medi, i cui voti erano “in uscita” verso il Msi.

L’opzione di Moro in quegli anni fu per un cammino politico lento, accurato, volto al dialogo con il Pci, che apparve tuttavia discutibile sia sul piano interno che internazionale. Non a caso, il “compromesso storico” fu presto abbandonato dalla Dc, dopo la sua morte, privilegiando l’opposta formula anticomunista del “preambolo” di Flaminio Piccoli: un dialogo coraggioso e mite tra democristiani e comunisti interrotto, insomma, drasticamente esattamente quarant’anni fa, in quella mattina in cui sarebbe affogata irreversibilmente nel sangue la storia d’Italia.

La politica di oggi, senza dubbio, è distante un secolo da quella di allora, ma la sua memoria andrebbe onorata incessantemente e meditata con maggiore spessore, non riducendo l’intera traiettoria umana e politica di questo grande statista ad una macabra vicenda finale di cronaca nera, contornata di sospetti, complotti e spionaggio. Andrebbe studiata, capita e interiorizzata, in fin dei conti, l’autentica grandezza eroica e tragica del più perfetto conservatore progressista che questo Paese abbia mai avuto a timonare la propria nave in tempesta.

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