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La tela del Dragone. Così Xi mette mano al potere di Pechino (guardando agli Usa)

Le riunioni congressuali a Pechino hanno deciso che il nuovo vice premier cinese sarà Liu He, intimo alleato del presidente Xi Jinping, che da pochi mesi lo ha promosso tra i 25 massimi papaveri del Politburo, da tempo consigliere in materia di policy economiche della presidenza, sessantaseienne laureato ad Harvard, con un peso enorme tra “i silos” del potere cinesi (definizione rubata a Cliff Tan, capo del settore ricerca sui mercati globali dell’Asia orientale alla Bank of Tokyo-Mitsubishi).

La scelta di He è un altro passaggio – in larga parte atteso – nel rafforzamento di Xi all’interno dei massimi gangli del potere cinese: ora, come fa notare su Facebook il giornalista di Milano Finanza esperto del mondo cinese Andrea Pira (autore su queste colonne di un bel ritratto di Liu He), a Pechino c’è un vice premier “che conta più” di Li Keqiang, il primo ministro stesso (e questo per l’intimità del rapporto di Liu con Xi).

La nomina arriva in un momento particolare per la Cina: il presidente Xi, riconfermato da pochi giorni in ufficiodopo aver ottenuto l’eliminazione del vincolo temporale sul mandato – sta spingendo il Paese a diventare un (il?) riferimento delle dinamiche globali con una serie di operazioni strategiche programmate per i prossimi anni. Nel 2030 l’obiettivo di Pechino è di diventare la prima economia del mondo, superando gli Stati Uniti, per esempio.

Washington, appunto: in questa fase di crescita e riassetto così delicata – per cui la Cina ha scelto addirittura di rinunciare al minimo di ricambio concesso nel sistema della Repubblica popolare, il massimo di due anni per il mandato presidenziale – Pechino si trova davanti il macigno americano. L’amministrazione Trump ha un pallino fin dai tempi della campagna elettorale: ridurre l’immenso deficit sofferto dagli Stati Uniti negli scambi commerciali con la Cina, e su questo punto ha vincolato molte delle decisioni; sia quelle aggressive, come i dazi sul fotovoltaico e su alcune materie prime, mirate anche contro i cinesi, sia quelle dialoganti con cui si cerca di mantenere aperta la porta prima di chiuderla del tutto e avviare la guerra commerciale.

È notizia di questi giorni un “quasi strappo” a questo secondo genere di postura – punto a favore per chi da mesi sostiene che il 2018 sarà proprio l’anno in cui Washington inizierà a usare fermezza nei fatti contro Pechino, sfruttando anche il riassetto interno agli organismi istituzionali cinesi. La Bloomberg era arrivata per prima su un nuovo scoop destinato a portarsi dietro conseguenze: l’amministrazione americana avrebbe già deciso di chiudere il Comprehensive Economic Dialogue, programma di dialogo economico tra i due Paesi.

L’agenzia stampa americana specializzata in questioni economiche ha scritto che David Malpass, sottosegretario al Tesoro americano per gli affari internazionali, durante le riunione del G20 finanziario in corso a Buenos Aires, ne ha dato annuncio preciso, dicendo che gli americani erano “delusi” dal comportamento cinese e dalle derive sempre più autoritarie prese dal governo di Pechino.

Poi Malpass ha chiesto una correzione, dicendo che il suo segretario, Steve Mnuchin, mantiene ancora rapporti diretti, di alto livello, ma riservati, con Pechino. Il sistema bilaterale è stato creato da George W. Bush, ed era già finito sotto attacco da parte di tanti trumpiani doc, come per esempio il segretario al Commercio, Wilbur Ross, che lo scorso anno lo aveva dichiarato poco efficace visto che non aveva impedito la creazione dello sbilancio commerciale.

Ora Liu He avrà un compito in più: ristabilire le relazioni, impedirne il deterioramento definitivo, perché se Malpass s’è lasciato sfuggire quell’uscita significa che qualcosa bolle in pentola. E spetterà proprio al vice premier il compito di mantenere vivo il canale, anche perché a inizio mese è stato proprio Liu, ancora soltanto adivsor economico del presidente, a recarsi a Washington per intavolare colloqui e migliorare la rete dei rapporti (tra l’altro, ha avuto anche uno di quei faccia a faccia con Mnuchin su cui Malpass era passato sopra prima della correzione del suo dipartimento).

Washington vorrebbe la riduzione di almeno cento dei trecento miliardi di deficit commerciale, e chiede impegno ai cinesi: che d’altronde rispondono da una posizione di forza, visto che hanno piazzato investimenti strategici negli Stati Uniti (possiedono oltre 1,2 trilioni di dollari in buoni del Tesoro americano, e in pratica sono i principali creditori dell’America) e sanno che molte delle aziende americane (anche quelle enormi e globali) non possono svincolarsi dal collegamento commerciale con la Cina.

I falchi della Casa Bianca studiano operazioni laterali come lo stop a certi investimenti, spingono nuovi dazi più specifici, individuando il settore tecnologico come il terreno di massimo confronto (per esempio: la sfida sui sistema di intelligenza artificiale sarà il grande warfare, forse non solo economico-commerciale, dei prossimi anni).

Un altro dei terreni di confronto è quello del mondo monetario. Contestualmente alla nomina di Liu è stato ratificato l’incarico di capo della Banca della Cina, la People’s Bank of China (acronimo PBOC), la banca sovrana cinese, a Yi Gang: la sua nomina non era tra le più attese, e per gli osservatori Xi ha cercato di usarla per mandare un segnale di continuità agli investitori stranieri (che temevano un’azione troppo rivoluzionaria del presidente e uno strappo alla misurata liberalizzazione della politica monetaria cinese in corso avviata dal governatore uscente Zhou Xiaochuan, considerato come un protettore di Yi).

In teoria il nuovo piano di riassetto del governo, votato negli ultimi giorni dal Congresso cinese, dovrebbe permettere maggiori poteri alla banca centrale (che è sottoposta alle linee del partito), e dunque dare più spazio a Yi, che però non è considerato un peso massimo, e per questo alcuni analisti, spiega la Reuters, vedono il suo incarico come una copertura per Liu He, che – avendo ancora più peso nel mondo dell’Economia da vice premier – muovendosi anche dietro le quinte della PBOC potrebbe così supervisionare l’intero settore economico-finanziario cinese per conto del presidente, plasmando la politica monetaria secondo l’agenda di Xi.

Intanto la prima sfida per Yi Gang arriverà presto, quando il 21 marzo la Federal Reserve potrebbe rialzare i tassi d’interesse, e Yi dovrà scegliere la mossa giusta per muoversi tra i contraccolpi che la decisione del nuovo regolatore americano, Jerome Powell (un’altra scelta sulla traiettoria della continuità), avrà sui mercati globali.

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