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Perché prestare attenzione alla crisi in Etiopia

Di Giovanni Masotti

Cento milioni di abitanti, un’economia solida malgrado le gravi tensioni esplose dall'”anno nero” 2015, un ruolo-uida nell’instabile Corno d’Africa infestato da guerre e infiltrato dal terrorismo, l’ Etiopia – alleata dell’ occidente – sta vivendo un allarmante limbo.

Più di due settimane fa il premier Hailè Mariàm Desalegn, cristiano protestante, cinquantaduenne dal grande curriculum, leader del partito al potere dalla cacciata del feroce dittatore comunista Menghistu, ha gettato la spugna ammettendo con amarezza – e senza ipocrisie – la sua incapacità a ristabilire una situazione di normalità in un paese sconvolto da violente e continue proteste (politiche ed etnico-religiose) contro il governo: almeno settecento morti e migliaia di arresti di oppositori, settemila dei quali liberati pochi giorni prima delle sue dimissioni per tentare di dare “in extremis” un segnale di apertura, rivelatosi inutile e tardivo.

L’Etiopia affronta un bivio pericoloso: il Fronte democratico rivoluzionario del Popolo etiope, di etnia “tigrina” – assolutamente minoritaria, ma che detiene la totalità dei seggi in Parlamento e ha trasformato l’acerba democrazia di Addis Abbeba in una dittatura di fatto – non è ancora riuscito a nominare il successore di Desalegn, anche se – di ora in ora – si fa sempre più strada l’ipotesi della scelta del capo di uno dei tre partiti minori alleati dell’EPRDF, il giovane Abiy Ahmed Alì, 41 anni, musulmano, di etnia “oromo”, larga parte della quale è invece la maggiore protagonista dell’ intransigente opposizione all’establishment assieme agli “amhara”, anch’essi duramente penalizzati dal governo centrale.

Di fronte al persistere delle proteste di piazza è stato proclamato lo stato di emergenza per sei mesi, un ferreo regime repressivo – attuato con l’aiuto dell’esercito – che vieta libertà fondamentali come il diritto di sciopero e quello di manifestare e impone il bavaglio ai media. Un’atmosfera plumbea e incerta nel paese che – durante il fascismo – fu colonia italiana per cinque anni, un’occupazione che segnò una brutta e controversa pagina nella nostra storia.

Il rischio che incombe sull’Etiopia è altissimo: quello di precipitare in un caos incontrollabile, o di diventare per chissà quanto un’immensa caserma, con i militari che premono per ristabilire il loro “ordine”. La buia, lunga, era della dittatura militare-marxista filosovietica di Menghistu Hailè Mariàm (1977-1991) e del suo “terrore rosso” – un capitolo che sembrava chiuso per sempre – non sembra così remota, pur in un contesto tanto diverso. E spiega l’allarmato attivismo degli USA (soprattutto), e dell’ Europa, che temono di perdere un riferimento determinante in un’area che presenta mille insidie per l’equilibrio internazionale.

Anche Pechino, più silenziosamente, osserva con interessata attenzione lo sviluppo degli eventi. La Cina, che sta poderosamente avanzando in Africa, è oggi il partner commerciale numero uno dell’ Etiopia (che vanta da dieci anni una crescita media annua del 10 per cento), sta realizzando infrastrutture di enorme rilievo e si accinge a installare la sua prima base militare del “continente nero” nella piccola ma strategica Gibuti, la Singapore del Corno d’Africa, una ricchezza alimentata dagli investimenti stranieri, cinesi appunto e arabi. Tutto questo intreccio di interessi che convergono nello stesso scacchiere spiega abbondantemente perché il mondo (ma in Italia ce ne accorgiamo di meno) segue col fiato sospeso l’evoluzione della complessa situazione etiope.

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