Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato l’adozione unilaterale di dazi su acciaio ed alluminio, dopo averne applicati all’inizio di gennaio nei confronti di elettrodomestici e di pannelli solari principalmente provenienti dall’Asia. L’aspetto più importante è nell’aggettivo “unilaterale” in quanto sia nel discorso pronunciato a Davos poco più di un mese fa sia nel “messaggio sullo Stato dell’Unione” a fine gennaio, Trump aveva annunciato che ci sarebbero state “restrizioni” ma “negoziate”. La differenza è sostanziale.
Negli anni Settanta del secolo scorso, ad esempio, l’industria americana dell’auto si sentì, a torto o a ragione, presa d’assedio da case automobilistiche europee e giapponesi (quelle della Corea del Sud ancora non facevano paura). Allora gli Stati Uniti negoziarono con l’Unione europea e con il Giappone un programma triennale di restrizioni “volontarie” all’esportazioni di auto alla volta degli Usa nell’ipotesi che in questi tre anni le case automobilistiche americane si sarebbero ristrutturate e sarebbero diventate più competitive.
Anche se il programma specifico dei dazi che verrebbero applicati verrà annunciato la settimana prossima, fa paura il fatto stesso che non si tratterà di misure negoziate, ma unilaterali. Potrebbe essere l’inizio di una guerra commerciale internazionale in cui tutte le maggiori aree commerciali e i principali Paesi si troverebbero coinvolti. È per questa ragione che le borse mondiali hanno reagito molto negativamente all’annuncio di Trump.
Una guerra commerciale non può non provocare un rallentamento del commercio mondiale. Ed al commercio è legata la crescita mondiale, in graduale declino in questi ultimi anni proprio in quanto l’espansione del commercio internazionale sta segnando una flessione. Basti pensare che i principali modelli econometrici sia dell’economia internazionale sia delle maggiori economie nazionali hanno come principale variabile “esogena”(ossia autonoma) le esportazioni mondiali e/o quelle nazionali.
Quindi una guerra commerciale potrebbe causare non necessariamente un brusco freno all’economia internazionale, come quelli che si sono verificati negli anni precedenti le due guerre mondiali del secolo scorso, ma una crisi economica e finanziaria analoga a quella iniziata nel 2007-2008 e da cui l’Europa, e in particolare l’Italia, sta faticosamente uscendo.
Sono prospettive da far paura. Per questa ragione ci si devono aspettare fibrillazioni sui mercati sino a quando non si conosceranno i dettagli della posizione degli Stati Uniti.
Dato che ho vissuto a Washington per oltre tre lustri, non è detto che le nere prospettive di queste ultime ore si realizzino. Trump risponde a promesse elettorali fatte alla “rust belt”, gli Stati dell’Unione dove prevale un’industria pesante non più competitiva. Tuttavia non solo il Partito Repubblicano è stato tradizionalmente molto più favorevole al libero commercio di quanto non lo sia stato il Partito Democratico, ma l’high tech, la manifattura innovativa e soprattutto la finanza sono decisamente contrarie a una guerra commerciale che danneggerebbe non poco i loro interessi. È possibile che le misure specifiche saranno temporanee e mirate a quelle aree dove i costi di produzione sono marcatamente più bassi di quelli Usa. Con molto clamore, guardando a parte del proprio elettorato, Trump varerebbe misure per facilitare un aggiustamento strutturale della rust belt.
Ciò richiede fermezza e speditezza da parte degli altri Paesi Ocse, Unione Europea e Canada in primo luogo. Occorre insistere che in un mondo di vasti mercati comuni i più danneggiati da una guerra commerciale sarebbero proprio gli americani – consumatori, finanzieri e anche industriali, specialmente quelle realtà più innovative e dinamiche.