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Perché i russi giocano il gioco di Putin. Le ragioni di un’opposizione debole

Di Marta D'Arcangelo
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Mosca. “Un uomo nella propria vita non può scegliere tre cose: i genitori, la nazionalità e il presidente della Federazione Russa”. Aneddoti dal sapore amaro circolano su internet in queste ore, mentre Mosca si sveglia con una temperatura abbondantemente sottozero ed un sole limpidissimo. E se il freddo è insolitamente pungente, il termometro politico segna invece un risultato che non stupisce nessuno: il presidente rieletto Vladimir Putin ha centrato senza grossi errori di calcolo il proprio obiettivo del “70 + 70”, che indica le percentuali desiderate di affluenza e di consenso. Vero è che la prima è stata di qualche punto inferiore agli auspici, ma il secondo ha certo superato le attese. Questa mattina la Commissione elettorale centrale russa ha infatti diffuso i dati preliminari sui risultati di voto, da confermare nel pomeriggio, che vedono Putin oltre il 76 per cento: una cifra più alta persino di quella del 2004, quando l’ex agente del Kgb raggiunse il 71 per cento.

Eppure, a chiunque ironizzi su presunti metodi poco democratici, va ricordato che i 110 milioni di aventi diritto al voto hanno formalmente avuto la possibilità di scegliere tra otto candidati: oltre al capo dello Stato rieletto, presentatosi come indipendente, hanno concorso anche Pavel Grudinin, che si sta attestando al secondo posto con consensi vicini al 12 per cento per il partito comunista, Vladimir Zhirinovksij, leader storico dei liberal-democratici (tra il 5 e il 6 per cento), e a seguire Ksenija Sobchak, figlia di un noto politico degli anni passati nonché volto televisivo, Grigorij Javlinskij, del partito di opposizione “Jabloko” (“Mela”), e gli altri tre concorrenti meno conosciuti in Occidente (Sergej Baburin, Maksim Surajkin e Boris Titov).

Lo scarto tra la pole position e il secondo posto ha naturalmente dell’incredibile per molti esperti e meno esperti d’oltreconfine; tuttavia, i brogli registrati durante questa tornata elettorale sarebbero stati di gran lunga inferiori a quelli degli anni scorsi, mentre da Kaliningrad a Vladivostok non sono mancati gli osservatori internazionali. Marietta Tidei, capo delegazione parlamentare dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), ieri mattina ha visitato una delle sezioni elettorali centrali della capitale russa e ha spiegato che la missione è presente nel Paese con oltre 500 osservatori parlamentari, di breve termine e di lungo termine. Sempre secondo le parole di Tadei, un centinaio sarebbero stati i deputati, provenienti da 30 paesi, che hanno presenziato alle procedure elettorali, dall’apertura dei seggi sino alla fase di conteggio dei voti e alla registrazioni dei risultati.

Entrando nella sezione moscovita di via Fadeeva, in un quartiere centrale e rinomato, non troviamo nessun ostacolo oltre al metal detector iniziale, una consuetudine vecchia ormai di anni nella Russia che ha saputo fare i conti col terrorismo ceceno e non solo. Tutte le domande dei giornalisti e persino dei semplici curiosi ricevono una risposta: tra gli organizzatori delle elezioni e coloro che lavorano al seggio si respira una gran voglia di mostrare che il processo elettorale è trasparente. I cittadini arrivano alla sezione con il passaporto interno, corrispondente alla nostra carta d’identità, e ritirano la scheda, dove come in una lista è indicato il nome dei concorrenti, accompagnato da una serie di dati personali. Sui cartelloni affissi alle pareti, sobri e senza simboli di partito, si possono persino leggere le cifre del patrimonio personale dei concorrenti, la quantità di conti bancari, il numero degli immobili posseduti e addirittura la superficie del loro appartamento.

Lo scetticismo è però tutt’altro che cancellato e, in questi mesi, lo Stato ha fatto di tutto per portare i cittadini alle urne; il 18 marzo i palloncini nei tre colori della bandiera nazionale invitano così i russi ad entrare ai seggi e, se ai nostri occhi la mossa è di dubbio gusto, non va dimenticato che anche ai tempi dell’Unione Sovietica il giorno delle elezioni era concepito come una festa, costruita sul principio della partecipazione del popolo e soprattutto sulla lotta al dissenso silenzioso dell’astensionismo. Oggi quell’opposizione che si esprime tramite la mancata partecipazione al voto, sebbene non abbia la reale possibilità di creare problemi, è la voce non solo degli intellettuali delle grandi città (con la loro realtà diversissima rispetto al resto del Paese), ma anche dei più giovani, che in tanti casi non hanno alcun interesse per i processi elettorali. Putin lo sa, e non a caso lo scorso ottobre è volato tre volte a Sochi nel giro di una settimana, per incontrare migliaia di under 35 che partecipavano al grande Festival internazionale della gioventù e degli studenti.

Così, sconfitto anche per quest’anno il timore della scarsa affluenza, i risultati non tardano a venire: una volta che un elettore medio si reca alle urne nella Russia di oggi, infatti, difficilmente vota un candidato diverso da Putin. L’opposizione, come molti erroneamente pensano, non si può dire assente; eppure è un’opposizione debole soprattutto per due motivi. Il primo è la mancanza di coesione e di organizzazione, una caratteristica storica del dissenso in terra russa, mentre il secondo è la mancanza di quel polso che serve per amministrare lo Stato più vasto del mondo, ridotto alla fame solo vent’anni fa. Molti russi hanno ancora una memoria fresca di quegli anni novanta di libertà troppo selvaggia, con tanti libri in stampa ma con gli scaffali vuoti nei negozi. Le recenti critiche dell’Occidente, sempre più aspre, non hanno poi fatto che giocare il gioco del presidente Putin: il popolo russo, in cui è radicato il senso di essere circondato da avversari, si è stretto ancora una volta per autodifesa intorno al proprio capo. È ciò che è successo anche nel 2014, quando la durissima condanna occidentale per l’annessione, o riannessione, della Crimea ha fatto schizzare in alto il gradimento per Vladimir Vladimirovich.

Restano ora da affrontare, pur con l’appoggio della stragrande maggioranza dei votanti, le incognite degli anni a venire. Nemmeno il presidente può oggi sottovalutare certi sentimenti di insoddisfazione e indifferenza diffusi tra i giovani e quell’indefinita classe media composta da piccoli imprenditori così come da dipendenti pubblici, insieme alle grandi sfide della politica estera, prima di tutto sui fronti siriano e ucraino. E poi, i problemi delle regioni lontanissime dal centro, le pessime condizioni in cui versa il sistema pensionistico, la corruzione innegabile e tanto denunciata dall’attivista Aleksej Navalnyj, e, naturalmente, le difficoltà economiche. Si deve tuttavia riconoscere che il Paese “del freddo e del caos”, come dice un gioco di parole russo, sta mostrando di saper incassare vari colpi ed ha sofferto certamente di più per i cali dei prezzi del petrolio, che hanno trascinato in basso il rublo, che non per le sanzioni economiche occidentali, visto anche che il capo dello Stato è riuscito di recente a portare la Russia fuori dalla recessione e a tenere l’inflazione sotto controllo entro il 4 per cento. L’enigma maggiore resta allora, piuttosto, quello della transizione del potere, in un sistema così ben strutturato da sempre sostenuto dallo stesso Putin, giunto ora con ogni probabilità all’ultimo mandato; era chiaro a tutti cosa ne sarebbe stato della Russia il 18 marzo, ma cosa succederà al Paese da qui a qualche anno? Una risposta la troviamo, forse, in una serata di accesi dibattiti politici, in un locale storico di Mosca resistito ai colpi del cambiamento: “La democrazia è un lavoro che parte dal basso”, ci dice un giovane del posto, “e qui non ci sono molte persone che vogliono fare questo lavoro”.

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