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Tutti festosamente sul carro di Zar Vladimir. Anche se Tajani…

Matteo Salvini, Giorgia Meloni

Il risultato delle elezioni presidenziali russe apre scenari di estremo interesse che debbono essere valutati con un misto di ammirazione e preoccupazione.
Vladimir Putin si conferma al Cremlino con il 76 % dei consensi, percentuale che ne dimostra l’indiscutibile popolarità e che fa di lui un vero e proprio gigante del nostro tempo, forse l’uomo al mondo che meglio interpreta questa stagione in cui la voglia di “uomo forte” si fa strada nei cinque continenti.
Gioca da protagonista in tutti gli scacchieri, a cominciare dal Medio Oriente, incarna l’orgoglio russo e quello cristiano come nessuno, rivendica un ruolo di potenza geopolitica ed economica che va ben al di là della reale forza del sistema russo, in verità ancora oggi quasi del tutto dipendente dalla sua capacità di esportare materie prime. Ma soprattutto Putin impersona una leadership dove il potere è saldamente nelle mani di pochi e quei pochi lo esercitano in modo assoluto e spregiudicato, facendo poche o nulle concessioni ai riti, spesso stanchi ed inconcludenti, della democrazia.

In questo primo scorcio di secolo, cioè nel tempo dei social network e dei tablet come appendice fisica delle persone, c’è in giro per il mondo un crescente fastidio verso la litigiosità della politica (di cui Twitter è esempio impressionante) combinato con un’ansia da risultato in tempi brevi che genera delusione e spesso frustrazione. Tutto ciò produce la perfetta miscela esplosiva per generare movimenti di protesta e per esaltare le figure di leader illuminato e, tendenzialmente, eterno, in quanto Guida Suprema lontana dalle inconcludenti beghe democratiche.

È il terreno di gioco che Putin ha sfruttato con impressionante abilità e che peraltro trova ampi riscontri nel modus operandi del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, del primo ministro indiano Nerendra Modi, del presidente cinese Xi Jinping: tutti legittimati da voto popolare di stampo decisamente plebiscitario.

Ecco allora il numero decisivo di tutta questa storia, quel 76 % di consensi che da un lato è la forza di Putin, forza immensa e indiscutibile, dall’altro lo colloca in un percorso che è altra cosa rispetto alla democrazia come la intendiamo noi, per il semplice fatto che nessuno in Italia o Francia o Germania arriverebbe mai a quella percentuale, per ragioni a tutti ben note.

Veniamo qui al risvolto italiano, che ha visto espressioni di forte consenso di alcuni nostri leader politici in favore di Putin. Penso a Matteo Salvini e Giorgia Meloni, che hanno gioito pubblicamente, ma anche a molti altri. Non vi è traccia nelle loro parole di una qualsiasi preoccupazione in merito ad un risultato che è fuori, nella forma e nella sostanza, dal solco tracciato dai partiti democratici alla fine del secondo conflitto mondiale.

In sostanza due giovani leader dal forte seguito come Meloni e Salvini ritengono “normale” ed anzi indice di successo prendere il 76 % dei voti, senza farsi troppe domande.
La situazione però non consente affatto di gioire in modo acritico, perché quel risultato ci porta a una pratica di democrazia di nuovo conio, dove molte della conquiste del ‘900 vengono messe in discussione.

Ebbene, c’è una risposta costruttiva a tutto questo, che non sia la solita lamentosa retorica occidentale? Sì che c’è, e si chiama Europa, a tendere sempre più forte politicamente.
Ve ne è traccia nell’intervista di oggi al Corriere della Sera di Antonio Tajani. Un’altra strada è possibile, capace di tenere viva la sostanza della democrazia senza ridurla ad esercizio di facciata.
Ma è strada lunga e perigliosa.

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