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Amate la giustizia voi che governate la  terra

Giugno, un giorno qualsiasi di giugno, ma nella prima decade quando la stagione è solo all’inizio.
L’aurora è stata prematura con la rugiada presa sulla cresta della notte, a breve sarà succeduta dall’alba è già si preannuncia dal chiarore oltre le colline.
Tra poco il chiavistello del mondo sarà fatto scivolare indietro e i battenti gireranno sui cardini, la porta si aprirà.
Svegliarsi in questa realtà ha i suoni di sempre, quelli che con familiare cadenza si avvertono uguali, per regolare ritmicamente la vita, tra l’incudine del fabbro ferraio e il martello, tra la macina e la ruota, tra la pialla e la sega, tra il cerchio e la botte.
E’ un rumore di battenti che aprono, quello che si avverte, e di fruscio di vesti che toccano il pavimento. E’ la lentezza a compiere i gesti, la lentezza ritmata della massaia che impasta, la lentezza dell’ago che buca la tela, la lentezza del sacco pieno ed issato sulla spalla, la lentezza della mano che striglia il cavallo, e della donna sulla loggia che l’attraversa.
Poi si odono le voci sempre più nitide, distinte, dal tono alto e alcune sommesse come quelle provenienti dagli interni ancora bui.
Si intersecano alcune voci con quelle dei pellegrini giunti al tramonto del giorno avanti e che hanno trascorso la notte alla locanda o nelle celle dei frati, per chi ha avuto ancora la forza di inerpicarsi in cima all’eremo, prima dell’oscurità, e che oggi sono già in partenza, con la bisaccia rigonfia di qualche mela selvatica, di fichi e noci, di qualche rapa e scalogno.
Il loro saio di iuta tocca le caviglie bianche e scarne accompagnato da un bastone di verga che precede il loro passo e lo cadenza.
Attraversano la città e la percorrono tutta fino alla porta d’Oriente che adesso il sole sovrasta. Intanto, un carro trainato da un cavallo si ferma davanti un portico e l’animale soffia dalle narici .
Sono tutti intenti a fare le loro cose di sempre e i suoni di una vita quotidiana toccano le volte a vela crociata dei portici, gli architravi di pietra, gli archi a sesto acuto che da secoli raccolgono suoni e voci senza farli disperdere del tutto.
Nel palazzo pubblico le grandi vetrate policrome sfavillano, vengono aperte sullo stanzone dalle pareti di calce bianca ancora umida; nei catini miscele di colori si mescolano con grossi cucchiai di legno.
I mastri ed i pittori sopraggiungono con le casacche coperte dagli ampi grembiuli.
I disegni vengono srotolati sul pavimento e osservati, ma quelli da tracciare, sulle pareti, verranno abbozzati direttamente con una matita di carboncino da spingere con la punta sul filo di uno spago teso per avere profili e righe quasi perfette, impercettibilmente inclinate o discontinue, ma ben impresse a dare forma alle cose e profondità e vicinanza così che l’occhio possa immaginare vero ciò che la mente va elaborando della visione del mondo.
Basterà riprodurre verosimilmente la natura e quelle costruzioni umane così schematiche nei loro stili di appartenenza, in un tutto armonico costrutto di colori, luce ed ombra, chiaro-scuri fisici e meta-fisici.
Il maestro discute e muove l’indice sulla parete bianca ed umida, là dove ancora le tracce devono essere impresse, seguendo un disegno che nella sua mente è già a rilievo , è già plastico, lo espone a parole usando metafore e similitudini cosicché gli operai e gli allievi possano chiarificarsi contorni pieni e vuoti e la progettazione di uno spazio che dovrà dare all’occhio il senso di una proporzione, senza troppi inganni e l’immagine di una finzione che paia realtà.
Poi si dirige sulla loggia, le mani dietro la schiena e posa lo sguardo sul campo di terra battuta con l’erba di giugno rasa e un piccolo gregge fermo sui bordi, il sole quasi allo zenit fa risplendere la pietra delle pareti che vestono i palazzi e gli edifici, in cima ai tetti altri operai con la schiena curva ad imprimere ancora calce e coppi,con i mattoni da tagliare e la polvere che si alzerà fino a poco prima del tramonto quando si dovrà cessare il lavoro e si potrà ridiscendere verso la fonte a lavarsi.
Mentre nelle sale si lavora di squadra e di colori; i funzionari sono intenti ai loro uffici e si dà udienza ai mercanti che trasportano qualche mercanzia dentro al palazzo per mostrare la fattezza delle loro merci e chiedere ospitalità dentro alle mura cittadine o ancora il prezzo di una gabella o di un affitto per fermarsi in città.
Le osterie a quest’ora del giorno sono piene di fumo, con i focolari che traboccano di paioli colmi di brodo al profumo di erbe e cipolla ed i boccali che travasano vino nuovo da portare alla bocca e rifocillarsi di tanto lavoro alla bottega, dietro le incudini, e tra i trucioli del legno o l’argilla del tornio.
Sulle tavole si parla solo dopo aver bevuto, qualche poeta inizia un sonetto, si parla di gesta e di gran d’armi, di crociate e di prodigi, di santi e di conventi, ma anche di dazi ingiusti e di medicamenti miracolosi .
E poi di quella tal madonna che sta alla loggia intenta al telaio e alla tessitura che nessun pittore osa immaginare ma che tutti bramano di dipingere.
Ora il maestro lascia la sala del palazzo pubblico e siede alla mensa con i suoi colleghi di bottega, dopo un affaccio veloce dalla loggia ad ammirare la sua città operosa. Ecco, è questa operosità che deve mostrarsi, questa continua officina che si dispiega e si srotola per tutta la città, dal basso, all’alto, sotto i portici e sui tetti e oltre le mura dove si estende la campagna.
La campagna dall’alba è un altro mondo parallelo che si dispiega sotto la luce del sole.
A cadenzare il lavoro dei campi è questo arco di cielo che il sole attraversa ruotando come vuole il buon Dio attorno alla Terra che egli ha creato e che l’aratro imita solcando nel terreno.
Uomini e animali ridisegnano i confini dei campi. A giugno le messi sono pronte per il raccolto, i campi sono d’oro, in una stagione in cui il tempo si disegna come l’ordito sui fili di trama tenuti nella cornice del telaio. Quando l’operosità è garantita da tutti e il lavoro è una ruota sicura che gira sul cardine, allora il granaio si colma, la fascina è pronta, il covone pieno, gli animali grassi e in buona salute, si porta a compimento l’attesa, la fatica è compensata dal raccolto. Il bene genera bene, e la ricchezza è assicurata.
I contadini lo sanno da sempre, lo hanno impresso sulle braccia e sulle spalle che curvandosi verso terra assicurano alle spighe di innalzarsi verso il cielo. C’è un legame antico tra la terra e l’uomo basta osservare la regola, portare l’acqua ai canali tra le coltivazioni, estirpare la gramigna, ordinare la vigna, potare gli alberi e raccogliere i frutti per avere il disegno perfetto delle leggi di Dio e permettere all’universo di rispondere a quelle leggi.
Bastava percorrere il sentiero dei campi e a vista d’occhio perdersi nella distesa dorata del grano, fino alle radure di fieno e paglia appena battuti e vedere l’estensione delle vigne coi filari verdi e rigogliosi con i grappoli dagli acini color smeraldo, ancora agresti e duri come chicchi di alabastro. I frutteti di meli e peri quasi maturi lucenti e abbondanti e gli ulivi forti e tenaci.
E’ così che la campagna si dispiegava alla vista dei nobili cittadini, i quali sapevano misurare la ricchezza con la beltà anche dei prodotti della terra oltre che dalla pienezza delle messi. E in tempi di pace dedicarsi alla caccia nelle belle campagne, dove l’ordine e l’impresa si svolgevano con magnificenza. Al contadino bastava l’effetto : il frutto ed il raccolto.
Ai cittadini più nobili, avvezzi all’esercizio del pensiero e della meditazione, l’effetto doveva perpetuarsi, trovare un riflesso nell’arte di un affresco, di un arazzo, di un dipinto, di un madrigale e rendere omaggio al governo della propria città, rendere omaggio ai giusti, ai padri, alla storia, ai posteri presso i quali assicurarsi il lume della memoria.
Anche agli stessi cittadini atti alla propria occupazione, presi dalle proprie faccende e mestieri doveva essere chiaro e ben impresso per il funzionamento dello stato.
La città stessa, nata da tanta operosa maestria, doveva essere retta in modo perpetuo da tale ordine di cose perché nulla dovesse spezzare quell’incanto di merci in entrata, di animali da soma carichi, di donne affaccendate e con le ceste issate sul capo, e di artigiani intenti alla propria bottega e di maestri ascoltati dal loro uditorio attento, di operai sui tetti, di palazzi eleganti, di greggi ordinate, di contadini chini e di vigne piene di grappoli d’oro.
Per reggere questo governo delle cose e delle genti una grande metafora sottesa ad ogni manifestazione umana doveva regnare sovrana: la giustizia.
Solo rispondendo all’ordine e alla forma delle leggi, ciascuno per la propria persona, il governo della città era assicurato da una sorta di buona natura, così come la natura risponde all’ordine delle leggi divine e anche l’universo senza sottrarsi alla foglia che si muove, al vento che si alza, al seme che sboccia, all’acqua che scorre, al fulmine che saetta, ma sempre rispondendo alla chiamata di un ordine superiore, così i cittadini nobili e meno nobili dovevano occuparsi della loro città assicurando alla legge di compiersi pienamente e rispondere alla forma preordinata e imperante.
I cittadini dovevano assicurare che a questo disegno non dovesse mancare la debita e giusta azione di ognuno, ognuno per la propria parte, senza dimenticare i capi saldi sociali di una differenzazione di impegni e di ruoli, di casta e di mestiere, di nobiltà e di cittadinanza. Questo doveva compiersi nella didascalia del disegno: un’allegorica visione di come senza vizi e senza peccati doveva imperare la virtù della giustizia umana.
E’ un tempo in cui la voce e la parola avevano una risonanza tutta colta nello spazio dell’udito, un udito cadenzato dal ritmo e dalla prosaicità del discorso, dove le parole dette rimanevano come ammonimenti negli orecchi e venivano ripetuti per non essere dimenticati.
Ma per aiutare la memoria, la pittura e gli affreschi cominciarono a impressionare le immagini e a sublimarle per tutti, anche per chi era meno avvezzo all’arte del parlare come i contadini e come gli artigiani che usavano piuttosto le mani che non i discorsi ed i concetti.
E’ così pensò il maestro Lorenzetti nel vano di un finestrone del palazzo, mentre guardava alla sua città così fiorente e colta, ognuno che entrasse, che fosse natio o straniero, che fosse mercante o notaio, che fosse operaio o pellegrino, che fosse nobile o povero doveva sapere che nessuna tessera doveva sottrarsi al mosaico della giustizia.
Non vi era posto per i corrotti, per gli oziosi ed i fannulloni, per i ladri e gli usurai, per i furfanti e i lestofanti, per gli usurpatori dell’ordine, per gli assassini e i rapitori, per loro si sarebbe alzata una forca e si sarebbe aperta la voragine dell’inferno terrestre e divino.
L’immagine dell’oscena bruttezza del male doveva dispiegarsi proprio di fronte alla rivelazione della pace e della giustizia del Buon Governo delle cose e degli uomini.
Un governo retto da ingiusti, da uomini inoperosi, mossi dallo scempio della loro avidità portava alla stortura di un Cattivo Governo di una altrettanto cattiva realtà di pestilenza e malattia per cui non c’era salvezza, ma solo inferno.
L’immagine di un quadro tanto brutto e mostruoso doveva ergersi a monumentale specchio dell’altra faccia, così armoniosa e bella come la città e la campagna forgiate dal giusto ordine e dalla operosa maestria della pace e della concordia tra gli uomini.
Il mostro doveva piazzarsi come un ammonimento perituro, a ricordare sempre quel filo di concordia tra le mani che avrebbe ricondotto al bene e all’ordine della giustizia e che avrebbe assicurato ai cittadini, e agli uomini la salvezza dal labirinto insidioso della corruzione e del vizio, come il filo di Arianna per Teseo, il filo di un sentiero giusto verso la salvezza.
E’ questo il disegno che il maestro mostrava sulla parete bianca prima ancora che lo realizzasse.
Prima del tramonto si sentono i suoni delle campane, è l’ora che i contadini alzano il capo e si incamminano verso il borgo; il bestiame viene condotto alle stalle, la pialla smette il suo lavoro e così l’incudine e il martello.
Le donne lasciano le logge e si ritirano, i cortili dove zampillano le fontane e dove scendono le carrucole dei pozzi sono attraversati dalle prime ombre.
Sulle finestre si accendono le fiaccole. La sera di giugno è ancora fresca, profumata di fieno; l’odore delle strade è pungente, ma le rose e i gigli profumano i bordi delle terrazze e delle logge e i mazzi di alloro appesi alla pareti impregnano l’aria così come l’erba rada della piazza del campo e le erbe medicinali e medicamentose nei vasi.
Al buio le voci animano la notte e si intrecciano al racconto di un lungo giorno dall’alba al tramonto, dove le mani hanno creato e dove la fatica ha piegato la schiena il racconto diviene un filo che si dispiega e si dipana e la storia si perpetua.
Anche al palazzo l’affresco è vivido nei suoi colori, prevale il giallo, l’ocra, il rosso, il verde, ma dall’altra parte dello specchio le tinte oscure stridono senza perdersi nella notte.

Le straordinarie intuizioni di Ambrogio Lorenzetti erano già scritte nella storia; bastava guardare l’Affresco con occhi diversi e capire quante sono le cose che si possono trovare nel “cartiglio” della nostra coscienza di uomini, tessere preziose di una Società che aspira, finalmente, al Buongoverno e al compimento della Giustizia.


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