Ai primi di maggio sapremo se le controversie ora in atto esploderanno in una guerra commerciale con risvolti rovinosi per tutti, anche e soprattutto per gli Stati Uniti che hanno lanciato la prima pietra. L’amministrazione Trump, in effetti, ha preso tempo sino all’inizio del prossimo mese per decidere se porre “dazi di ritorsione” anche nei confronti della siderurgia e metallurgia dell’Unione europea (Ue). Non ci sono state, sino ad ora, reazioni ufficiali da parte dei maggiori Stati dell’Unione – ricordiamo ancora una volta che loro le parti contraenti dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) – né della Commissione europea che, in base al Trattato di Roma, ha il compito di condurre i negoziati commerciali multilaterali su delega degli Stati Membri dell’Ue. Non si possono considerare tali vaghe proteste contro il protezionismo e in favore del libero scambio. Tanto più che la Ue ha da sempre difficoltà ad impartirle ad altri, principalmente a ragione del complesso regime di organizzazioni dei mercati e di montanti compensativi che costituiscono l’asse portante della politica agricola comune.
Tuttavia, sottotraccia, si sta muovendo qualcosa che potrebbe fare cambiare rotta alle minacce dell’amministrazione Trump, e alle misure già prese da Washington nei confronti della Cina. È ormai chiaro a tutti che il contenzioso tra gli Stati Uniti e la Cina non riguarda il commercio che in modo superficiale. Il vero obiettivo è il “taroccamento” di prodotti ad alta tecnologia americani ed europei brevettati, e protetti, dalla normativa internazionale sulla proprietà intellettuale. Su questo fronte, Stati Uniti , Europa ed i principali Stati dell’Asia e dell’America Latina hanno gli stessi obiettivi e gli stessi interessi da difendere. Per gli Usa, la disinvoltura, ove non le vere e proprie rapine di proprietà intellettuale da parte della Cina, sono particolarmente amare anche perché Pechino ha blindato le proprie reti nei confronti di Apple, Google, Amazon e Facebook, i quattro “grandi” dell’high tech, e ha creato giganti analoghi (spesso copiando quelli Usa) per il proprio mercato, nonché mirando a quello di altri Paesi asiatici ed ora anche europei (si pensi all’aggressività di una grande azienda cinese delle vendite on line come Ali Baba.
La Cina, ricordiamolo, è diventata membro dell’Omc il 15 dicembre 2001, dopo lunghi negoziati in cui il suo maggiore sostenitore erano proprio quegli Stati Uniti con cui oggi Pechino è ai ferri corti. Washington vedeva nella Cina un grande mercato potenziale per le proprie esportazioni sulla base di stime dell’aumento del tenore di vita della popolosissima Repubblica Popolare. Gli altri principali Stati dell’Omc avevano perplessità poiché non ritenevano che l’immenso Paese fosse un’economia sufficientemente “di mercato”. Pechino accettò all’epoca di effettuare una serie di drastiche riforme non solo in materia di commercio internazionale di merci ma soprattutto di servizi (banche, assicurazioni) e di aprirsi al resto del mondo. L’ammissione fu, per così dire, in via provvisoria; ogni anno, la Cina si doveva assoggettare a una analisi (da parte degli organi dell’Omc) dei progressi in materia di liberalizzazioni interne e internazionali. Da allora, la Cina è stata deferita circa 200 volte agli organi Wto su singole vertenze relative alle sue prassi commerciali. Da pochi giorni, l’amministrazione americana si è rivolta all’Omc perché si riesamini se e in che misura la Cina ha mantenuto gli impegni assunti nel 2001 ed è divenuta un’economia di mercato. La richiesta è di espellere la Repubblica Popolare dall’Omc.
Su questa richiesta si sta formando una vera e propria grande coalizione, in primo luogo di altri Stati dell’area del Pacifico. C’è poi un forte supporto della comunità accademica e intellettuale americana interessata agli scambi mondiali. Non che si voglia giungere all’espulsione della Cina dalle regole che governano il commercio mondiale; esempi del lontano passato insegnano che i suoi comportamenti potrebbero diventare ancora più “pirateschi”. Pechino, però, teme questa ipotesi perché equivarrebbe a essere messa alla porta della vasta comunità dei Paesi considerati “civili” e potrebbe trovarsi a dover fare fronte a una levata di barriere contro i suoi prodotti e le sue aziende. Una “grande coalizione” porterebbe la Cina a osservare le regole commerciali e quelle in materia di proprietà intellettuale più di quanto non faccia adesso. La silente Ue dovrebbe battere un colpo.