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La democrazia digitale fra leader e follower. La versione di Yves Meny

Di Francesco Garibaldi
Meny

Populismo e democrazia, leaders e followers, tweets and likes. A margine del “Biennial Colloquy on the State of Democracy”, ospitato al Centro Studi Americani, lo studioso francese Yves Meny ha fornito la sua opinione sulla politica dei giorni nostri. Tra Trump e Obama, Renzi ed Orban, Meny si è dichiarato “pessimista” sulla effettiva capacità dell’Unione Europea di fronteggiare sfide epocali come i flussi migratori, i negoziati Brexit ed il pericolo nazionalista.

Prof. Meny, parliamo del Presidente Trump: l’elezione del tycoon può essere considerato sintomo del corretto funzionamento della democrazia USA?

Dalla creazione del People’s Party nell’ ‘800 fino all’elezione di Trump nessun candidato populista era mai stato eletto negli Stati Uniti. Per la prima volta, un candidato populista è stato eletto, anche malgrado l’ostilità di una ampia fetta del partito al quale Trump aveva aderito per farsi eleggere. Questo significa che il sistema elettorale USA è, per così dire, antiquato, nel senso che il suffragio popolare può essere più “alto” per un candidato che, nonostante ciò, può perdere. Questo è il prezzo da pagare per il federalismo USA. La seconda osservazione è che il sistema delle primarie è stato introdotto dai populisti americani alla fine dell’Ottocento ma non si è imposto subito, ma è diventato “generalizzato” a livello degli stati americani negli anni ’60-’70. I populisti avevano voluto introdurre questo sistema per distruggere il potere nel fare le nomine da parte dei partiti. Oggi si vedono i risultati: le primarie decidono chi potrà vincere e chi potrà competere per le elezioni presidenziali. Partiti europei come il PD in Italia e il Partito Socialista in Francia hanno importato le primarie, e si vedono i risultati, sono in seria difficoltà. Secondo me i partiti non dovrebbero delegare ad altre istituzioni la scelta del leader perché delegando la scelta ad un corpo elettorale diverso dal proprio si distruggono i meccanismi interni al partito.

Torniamo nel Vecchio continente: pensa che i partiti populisti europei siano “sostenibili” in un panorama di lungo periodo?

Non penso che i partiti populisti siano sostenibili nel lungo termine perché le reali capacità di un partito risiedono nella loro capacità di governare, cosa molto più difficile della semplice permanenza all’opposizione. È interessante notare come i partiti populisti man mano che si avvicinano al potere cambiano le loro posizioni: le loro trasformazioni sono evidenti anche in Italia. L’influenza dei partiti populisti può essere effettiva nel lungo termine solo in due casi: nei paesi in cui questi partiti non sono al potere ma partecipano nei dibattiti parlamentari la loro sopravvivenza può durare a lungo. Nei paesi in cui riusciranno a compiere dei cambiamenti istituzionali, elettorali o procedurali, potranno prolungare la loro influenza a lungo termine. Il caso americano è esemplare in questo discorso: i populisti non hanno mai vinto ma sono un elemento determinante e costante della politica americana. Anche un presidente americano non populista come Barack Obama scelse come slogan “Yes, we can” volendo insistere sulla capacità individuale di cambiare il Paese.

È secondo lei possibile affermare che con l’ascesa di movimenti e partiti populisti si sia compiuto un passaggio epocale da una tipologia di “democrazia naturale” ad una “democrazia digitale”?

La democrazia digitale può essere un elemento di grande cambiamento nel rapporto tra leaders e followers. In realtà, qualsiasi partito può utilizzare questa trasformazione. Sono rimasto colpito da come Emmanuel Macron abbia intelligentemente sfruttato la democrazia digitale creando un nuovo movimento in cui tutti possono aderire senza necessità di pagamento e tesseramento, ma in cui ognuno è libero di dare un contributo se lo vuole. Quello che è certo è che ormai viviamo in democrazie basate sui tweet e sui likes le cui peculiarità possono cambiare da un giorno all’altro a seconda degli umori dell’elettorato. In questo discorso, il ruolo del leader diventa sempre più centrale. Probabilmente l’unico paese dove la leadership è vista con sospetto è l’Italia, dove il consenso della comunità ed il suo diritto di veto fa sì che il consenso sia ancora più importante del leader. Basti ricordare il fallimento di Matteo Renzi, unico esempio di leader “forte” che l’Italia abbia avuto negli ultimi cinquanta anni.

L’Ue ha tre grandi sfide davanti a sé: le politiche comuni sul tema delle migrazioni, la gestione dei negoziati Brexit e le conferme al governo di leader euroscettici come il premier ungherese Viktor Orban. Come secondo lei l’UE può superare queste sfide?

Sono pessimista sulla capacità dell’Ue a 27 membri di affrontare in modo efficace queste sfide. C’è sempre un gruppo di Paesi che si oppongono a determinate decisioni e siamo in situazioni tipicamente italiana, in cui se non si è tutti d’accordo non si fa nulla o quasi. Credo che se l’UE deve progredire sulla via dell’unione politica, l’unica soluzione che rimane è quella di una “Europa a due velocità”, con la possibilità per chiunque di raggiungere il gruppo di testa. Se si aspetta che tutti siano d’accordo per andare avanti il processo decisionale si blocca troppo facilmente. Basti pensare che l’elezione di Viktor Orban andrà a scompaginare la formazione politica del PPE, in cui nello stesso gruppo ci sono i tedeschi della CDU ed il Fidesz di Orban. Si sono chiusi gli occhi per interessi politici minori per rimanere nel gruppo più importante del Parlamento. Le strutture partitiche europee sono talmente deboli da accettare cose come queste, ed alla fine non c’è più una identità chiara.

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