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L’Ungheria di Orban fra Europa, Visegrád e Mosca

Di Antonio Villafranca e Matteo Villa
ungheria, Orban

Con una larga maggioranza Fidesz, il partito di Viktor Orbán, ha vinto per la terza volta consecutiva le elezioni ungheresi. Se la conferma di Fidesz a primo partito della scena politica nazionale non pareva essere in discussione, più interessanti sono altri due dati: da un lato, la continua debolezza delle opposizioni moderate; dall’altro la consacrazione di Jobbik, partito ancora più a destra di Fidesz, a unica alternativa temibile. Sul piano internazionale, mentre nel 2010 il nazional-populismo di Orbán poteva ancora essere considerato un’eccezione in Europa, oggi c’è chi lo ritiene un precursore.

VIKTOR ORBÁN: ASSO PIGLIATUTTO?

In politica dai primi anni Novanta e al potere ininterrottamente dal 2010, Viktor Orbán è l’indiscusso dominatore della scena politica ungherese. Una situazione, quella attuale, molto diversa dal primo passaggio di Fidesz al governo del paese, tra il 1998 e il 2002. In quel caso un giovane Orbán, all’epoca solo trentacinquenne, guidava una coalizione di centrodestra che avrebbe portato il paese nella Nato (1999), preparando l’Ungheria a fare il suo ingresso nell’Unione europea (2004).

Nel corso del suo secondo mandato (2010-2014), invece, il primo ministro ha approfittato della supermaggioranza in Parlamento (vedi grafico) per sostituire la Costituzione e consolidare la penetrazione di Fidesz nei gangli politici, industriali e dei media del paese.

Da quel momento, la percezione esterna dell’Ungheria è profondamente cambiata: da uno tra i tanti Paesi alle prese con le difficoltà della transizione post-sovietica, Budapest è diventata rapidamente la pecora nera dei nuovi arrivati in Unione europea.

Il processo di riforma costituzionale fu percepito come un momento di rottura, sia a causa del pressoché nullo coinvolgimento delle opposizioni, sia perché avvenne proprio nel corso del primo (e unico) semestre di presidenza ungherese dell’Ue. Con il passare degli anni la posizione di Orbán nei confronti dei critici, interni ed esterni, non si è ammorbidita. La nuova Costituzione ha ridotto il numero dei parlamentari da 386 a 199, aumentando gli effetti premianti di una legge elettorale già fortemente maggioritaria. Una legge sui media ha imposto uno stretto controllo dello Stato su tutti i mezzi di informazione, e previsto multe ingenti in caso di violazioni (fino a 700mila euro per la carta stampata).

Ciononostante, a dimostrazione che Orbán non si sentisse la vittoria in tasca, la campagna elettorale 2018 è stata combattuta aspramente. Il primo ministro ha posto l’enfasi su una narrazione fatta di complotti esteri (orchestrati, a suo dire, dal magnate ungherese-statunitense George Soros) e interni (le “ong pro-migranti”), e ha lavorato per ridurre ulteriormente lo spazio politico e mediatico concesso alle opposizioni. Una strategia che, visti i risultati, sembra avere pagato.

JOBBIK: IL CONSOLIDAMENTO DELLA “DESTRA PIÙ A DESTRA”

Fondato nel 2003, il Movimento per un’Ungheria migliore (Jobbik) è un partito che abbraccia ideologie ultranazionaliste e radicali. Accusato di antisemitismo e di essere un partito neonazista, anche alla luce del suo aumento di popolarità (vedi grafico) pur continuando a proporsi come una formazione politica più a destra di Fidesz dal 2014 il partito ha intrapreso una campagna di relativa normalizzazione. In questo senso, la parabola del partito sembra seguire quella del Fronte nazionale in Francia, o ancor più quella del FPÖ austriaco recentemente giunto al governo.

Nel corso della crisi europea dei migranti, tra settembre 2015 e marzo 2016, quando centinaia di migliaia di persone attraversavano l’Ungheria nel tentativo di raggiungere Germania, Svezia e altri paesi del centro-nord Europa, il consenso nei confronti di Jobbik era cresciuto fino al 25%, mentre quello per Fidesz era sceso sotto il 40%. I successivi due anni hanno permesso a Fidesz di recuperare il terreno perduto, ma data la forte divisione delle opposizioni quest’anno Jobbik è, per la prima volta, il secondo partito dell’Ungheria.

ECONOMIA: UN PAESE IN CRESCITA, MA SENZA SPINTA

A prima vista, l’Ungheria di oggi appare come un Paese economicamente sano: tasso di disoccupazione che dopo la crisi è tornato rapidamente a uno dei valori più bassi in Europa (dal 11,3% del 2010 al 3,8% attuale), crescita economica dai ritmi sostenuti (+3,2% nel 2017) e finanze pubbliche piuttosto solide (il rapporto debito/Pil è al 73%, in discesa rispetto all’81% toccato all’apice della crisi).

La realtà, tuttavia, non è così rosea. Gli ungheresi sono i cittadini europei che tra il 1990 e oggi hanno visto i minori progressi dal punto di vista dell’aumento della speranza di vita, che resta oggi tra le più basse d’Europa (nel 2016 era 76,2 anni; persino inferiore a quella dell’Albania, che arriva a 78,5 anni). Ciò fa il paio con una crescita economica che non ha tenuto il passo degli altri tre Paesi del gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) con cui l’Ungheria è solita confrontarsi. Infatti, malgrado il Pil pro capite ungherese sia oggi quasi raddoppiato rispetto a quello di venti anni fa (da 15mila a 27mila dollari), nel 1997 i cittadini ungheresi erano secondi solo a quelli cechi, mentre nel 2007 erano stati superati da quelli slovacchi, e nel 2017 anche da quelli polacchi. In particolare, negli otto anni di governo Orbán la crescita complessiva dell’Ungheria è stata la più lenta tra quella dei paesi del gruppo di Visegrád.

Per ovviare a tutto ciò, nella costruzione del consenso interno Orbán ha adottato una classica strategia “paternalista”. Tra il 2010 e oggi Fidesz ha approvato una serie di concessioni e benefit, diretti in particolare al ceto medio e medio-basso. Le misure varate includono l’innalzamento delle pensioni, il taglio dei costi per l’energia, l’aumento del salario minimo e agevolazioni fiscali per le coppie con figli numerosi o che abbiano appena acquistato una casa. Una sorta di ricostruzione in senso conservatore del welfare state nazionale: un’inversione di rotta rispetto alla rapida liberalizzazione degli anni Novanta.

TRA UE E VISEGRÁD: MURI E DEMOCRAZIA ILLIBERALE

La strategia di Orbán nel promuovere la sua visione di “democrazia illiberale” sembra seguire diverse direttrici: accusare l’Unione europea, e l’Occidente in generale, di essere complici di un complotto che imporrebbe all’Ungheria valori lontani da quelli tradizionali; sostenere che oppositori interni (in particolare stampa e Ong) sarebbero parte integrante di questo complotto; e cercare alleati internazionali che evitino a Budapest di restare isolata.

Alleati che l’Ungheria crede di avere trovato nella Russia e nel gruppo di Visegrád. Nato nel 1991 allo scopo di coordinare quattro paesi dell’Europa orientale che si erano appena sganciati dall’orbita sovietica per prepararsi in seguito a entrare nell’Unione europea, questo gruppo non è mai stato eccessivamente coeso. Una certa unità d’intenti sembrava essere stata trovata di fronte all’opposizione di tutti e quattro i paesi nei confronti della proposta Ue, nel 2015, di ricollocare 100mila richiedenti asilo da Italia e Grecia verso altri paesi europei. E la virata a destra della Polonia dopo le elezioni di ottobre 2015, a seguito della quale l’Ue ha attivato una procedura per “violazione dello stato di diritto”, ha avvicinato a Budapest anche il paese più popoloso del gruppo.

Nella realtà, tuttavia, i governi del gruppo di Visegrád continuano ad avere politiche anche molto distanti tra loro. Persino la Polonia, che per evitare di essere sanzionata ha tutto l’interesse a chiedere il sostegno dell’Ungheria, guarda però con sospetto al “flirt” tra Orbán e Vladimir Putin. E, paradossalmente, i cittadini ungheresi sono a tutt’oggi molto meno euroscettici di tutta una serie di paesi dell’Europa occidentale. Infine, il governo ungherese non può permettersi di inimicarsi troppo i partner Ue, anche a fronte dei quasi 5 miliardi di euro che ogni anno riceve in più rispetto a quanto versa nelle casse di Bruxelles.

BUDAPEST E MOSCA: VICINI O LONTANI?

Sin dai primi mesi di governo, e poi con maggior decisione dal 2014 in avanti, l’Ungheria di Orbán si è avvicinata alla Russia di Putin. Il miglioramento dei rapporti ha tanto più rilievo se si considera che i cittadini ungheresi non hanno ancora dimenticato la repressione di Mosca scatenata dalla rivoluzione ungherese del 1956. Ancora oggi una delle feste nazionali ungheresi si celebra il 23 ottobre, giorno d’inizio della rivoluzione ungherese. Inoltre Budapest è uno dei paesi che più dipende dalla Russia per le importazioni di gas naturale, e nel corso della “crisi del gas” tra Russia e Ucraina del 2009 il paese aveva risentito di una forte riduzione delle forniture.

Nonostante ciò, negli ultimi anni Russia e Ungheria hanno approfondito i rapporti, in particolare perché Orbán considera Mosca un modello di “ democrazia illiberale”, ma anche perché Mosca ha riversato nel paese significativi investimenti. Un esempio cruciale è il prestito da 10 miliardi di dollari che Mosca ha concesso all’Ungheria per il raddoppio della capacità di produzione elettrica della centrale nucleare di Paks, che attualmente soddisfa il 40% della domanda di elettricità del paese. L’investimento è stato al centro delle polemiche tra Ue e Ungheria, non da ultimo perché Budapest ha assegnato il contratto di espansione alla società russa Rosatom senza bandire un’asta pubblica, e il Parlamento ungherese ha votato per tenere segreto il contratto con Rosatom per 30 anni.

Tuttavia, l’Ungheria resta anche un membro molto attivo della Nato e collabora in missioni militari a guida statunitense. Truppe ungheresi partecipano a missioni Nato in Kosovo e in Afghanistan, e più di un centinaio hanno partecipato alla missione a guida americana Inherent Resolve contro lo Stato islamico. Orbán ha talvolta giocato questa carta per controbilanciare le influenze russe, ma anche per rassicurare le cancellerie occidentali. Negli ultimi anni, per esempio, l’Ungheria è stata tra i paesi che più di altri si sono schierati a favore di un rapido accesso nell’Alleanza atlantica di Albania e Macedonia. Una posizione di certo non gradita a Mosca, che da sempre considera i Balcani occidentali una delle proprie aree di influenza.

(L’analisi integrale è disponibile sul sito dell’Ispi e si può leggere qui)

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